n.6 - Aprile 2009
 
Inibitori della proteasi di HIV e tossicità cardiovascolare: focus dal CROI 2009
A cura di Giovanni Guaraldi,
Clinica Malattie Infettive, Università di Modena e Reggio Emilia
 
Farmaci ARV e rischio cv
L’invecchiamento della popolazione con infezione da HIV e l’incremento dell’età nelle nuove infezioni fanno ritenere plausibile un aumento di incidenza delle malattie cardiovascolari nei prossimi anni.
In questo contesto il dibattito sul possibile ruolo dei farmaci antiretrovirali come fattori di rischio indipendenti per le malattie cardiovascolari, non è argomento banale, soprattutto nello scenario mondiale, in cui ci si interroga sul possibile beneficio di un inizio anticipato della terapia antiretrovirale nei pazienti con infezione da HIV asintomatica e con CD4 compresi tra 350 e 500 cellule/µL.
Bisogna, tuttavia, premettere che il virus HIV di per se è un potente agente in grado di promuovere le malattie cardiovascolari attraverso un ruolo di infiammazione sistemica subendoteliale tale da determinare un’aterogenesi accelerata e una vulnerabilità delle placche ateromasiche presenti. Appare, quindi, fondamentale sottolineare che il primo passo per il controllo delle malattie cardiovascolari in HIV sia proprio il controllo della replicazione virale attraverso i farmaci antiretrovirali. Si, ma quali?
Anche quest’anno il CROI (Conference on Retrovirus and Opportunistic Infection), di Montreal ci ha regalato numerosi spunti di dibattito sulle tossicità legate ai farmaci antiretrovirali: in quest’ambito, è interessante focalizzare l’attenzione su quanto emerso sulle potenziali tossicità cardiovascolari legate alla classe degli inibitori della proteasi di HIV.
 
L’antefatto: i dati raccolti dallo studio DAD
Il Data Collection on Adverse Events of Anti-HIV Drugs study (DAD) che nel 2003 aveva osservato un’associazione tra l’infarto del miocardio e l’esposizione cumulativa ai farmaci antiretrovirali [1]. Nel 2007, grazie all’analisi di 345 infarti miocardici acuti osservati in un periodo di osservazione di 94,469 anni persona era stato in grado di associare un rischio relativo di 1.16 a ogni anno di esposizione alla classe degli inibitori della proteasi (PI) (95% CI 1.10 - 1.23), rischio invece non confermato per l’esposizione alla classe degli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (RR=1.05 , 95% CI, 0.98 - 1.13) [2].
 
Il fatto:
i dati dei CROI 2009
Come riportato a Montreal, il DAD ha potuto osservare all’interno della classe dei PI l’impatto dei singoli farmaci. Con grande rigore metodologico, Caroline Sabin, statistico del DAD Study group, ha scelto di analizzare le associazioni con gli eventi clinici solo per i farmaci per i quali si disponeva di un periodo di osservazione superiori ai 33,000 anni persona. I farmaci che disponevano di un tale follow up erano indinavir (IDV), nelfinavir (NFV), lopinavir (LPV) e saquinavir (SQV) rispettivamente con 298, 197, 150 e 221 eventi osservati. Lo studio osservazionale ha permesso di associare gli eventi miocardici acuti all’esposizione cumulativa di IDV e LPV (RR=1.13) ma non di SQV e NFV [3].
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Dal DAD emerge la tossicità miocardica intrinseca dei PI
Il dato più interessante del CROI è stato però, a mio avviso, l’analisi fatta sul DAD che ha permesso di definire un ruolo di tossicità miocardica intrinseca dei PI, indipendente del loro impatto metabolico.
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Lo studio SABAR: tossicità metabolica in discussione
Da clinici, ci limitiamo però a cercare degli strumenti per monitorare la tossicità dei farmaci. Uno studio interessante, presentato al CROI, a cui ho avuto modo di partecipare, ha però mostrato risultati negativi.
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Il risvolto clinico
Come gestire dal punto di vista clinico queste informazioni? La tossicità dei PI è tempo- dipendente: 10 anni di esposizione ai farmaci di questa classe, comporta un incremento del rischio di 4.4 volte di sviluppare un infarto miocardico acuto. Siamo, quindi, di fronte a una classe di farmaci da usare per un periodo ristretto di tempo? In realtà gli scenari che si configurano sono molteplici.
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Bibliografia
 
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