Il portatore inattivo
 
Ma la vera difficoltà sta nel caratterizzare bene il soggetto in esame (Tabella 6). E’ persino superfluo ribadire che in questo scenario è cruciale escludere la misclassificazione di un paziente che solo in apparenza è un portatore inattivo, in realtà è un malato in fase di temporanea quiescenza.
 
 
Ogni epatologo avveduto conosce l’implicito rischio che la misclassificazione comporta in termini di prognosi di medio-lungo periodo e quindi sa che l’osservazione assidua (ogni 3 mesi) e protratta (per almeno 18 mesi) dell’andamento delle transaminasi è il modo per scansarla.
Ciò premesso, il lieve anacronismo di mantenere a 20.000 UI/mL il livello minimo di HBV-DNA necessario per iniziare il trattamento che troviamo nelle linee guida AASLD è da considerarsi un retaggio della datazione di queste ultime, superato dalle indicazioni di EASL e AISF/SIMAST/SIMIT che fissano il limite a 2.000 UI/mL con un ranking omogeneo A1.
Anche la quantizzazione dell’HBsAg può essere di aiuto nel processo di inquadramento diagnostico del portatore asintomatico. In un lavoro seminale del gruppo di Pisa il dosaggio dell’HBsAg in portatori di HBV permetteva di distinguere i portatori inattivi da quelli attivi ma quiescenti, nei quali il titolo di HBsAg risultava stabilmente superiore a 1000 UI/mL (15).
 
E’ inoltre possibile che in circa il 10% dei portatori asintomatici possa coesistere una fibrosi >F2 (16), che, da una parte, rende auspicabile l’utilizzo di metodi non invasivi, ad esempio il fibroscan, per identificare i possibili candidati all’esecuzione della biopsia.
   
 
Dall’altra, sottolinea la necessità di valutare l’ipotesi di trattare anche soggetti solo apparentemente non evolutivi.
E ancora una volta il principio torna ad essere non più chi debba essere trattato, ma quale sia il momento più appropriato per iniziare un trattamento, sapendo che nel singolo paziente tale scelta potrebbe modificare la storia naturale e interrompere una progressione poco apparente ma già in atto.
La forza con cui tale principio si afferma è derivata dall’effetto che il trattamento antivirale ha dimostrato di possedere in pazienti con danno di fegato avanzato. La soppressione efficace della replica virale permette la regressione della fibrosi persino quando ha raggiunto ormai un grado F4 secondo Metavir (17) (Figura 3).
 
La determinazione occasionale del valore delle ALT non è attendibile e la normalità accertata in maniera sporadica non predice l’assenza di danno epatico, come dimostrato dal fatto che in uno studio tre quarti di pazienti con valori di ALT entro la norma al momento della biopsia avevano in realtà un livello di necroinfiammazione superiore o uguale a 7 e una fibrosi superiore o uguale a 2 secondo Ishak (18). Dall’altra parte, si può stimare che una proporzione del 15% di portatori inattivi è potenzialmente passibile di riattivazione spontanea di malattia e in questi soggetti la probabilità di evoluzione del danno di fegato verso la cirrosi può arrivare fino al 46% a 20 anni (19). Sapere che il sesso maschile e l’età al momento della riattivazione di malattia sono predittori significativi di evoluzione rappresenta un’informazione di grande utilità che permette di identificare i possibili candidati al trattamento.
 
Ma c’è dell’altro. In uno studio popolazionistico su portatori inattivi di HBV, sottoposti ad un lungo follow-up di 262.122 anni/persona, è stato dimostrato che l’incidenza di HCC è 0,06% all’anno nei portatori inattivi di HBV. Sebbene questa sia un’incidenza bassa, è 3 volte superiore rispetto a quella osservata nei controlli. Inoltre, la probabilità di sviluppare HCC e di morire per cause legate alla malattia epatica è maggiore nei portatori inattivi di età più avanzata con ALT ai limiti alti della norma e con HBV-DNA dimostrabile al momento dell’arruolamento (20).
Bisogna sottolineare che questo studio è stato condotto in una popolazione di etnia cinese, tuttavia è importante perché ribadisce che la categoria dei portatori inattivi può essere disomogenea e che bisogna saper riconoscere precocemente i soggetti a bassa attività replicativa e infiammatoria, specie nelle classi di età più avanzate, nei quali il trattamento può essere indicato.
 
A questo proposito, nella nostra esperienza, l’esecuzione periodica del fibroscan si può rivelare, assieme alla quantizzazione di HBsAg, di HBV-DNA e delle ALT, un presidio utile per individuare i soggetti meno stabili. Su 58 portatori inattivi, con valori di ALT al di sotto di 1,5 x i limiti superiori della norma e con HBV-DNA <2000 UI/mL, abbiamo eseguito la misurazione della stiffness a distanza di 12 mesi e abbiamo osservato che i soggetti con valori stabili di HBV-DNA avevano valori di stiffness significativamente più bassi rispetto ai pazienti il cui HBV-DNA, pur al di sotto delle 2000 UI/mL, oscillava nel tempo risultando negativo o positivo in maniera incostante (p=0.04) (Taliani et al, personal data).
Questa osservazione suggerisce che in soggetti a bassa attività replicativa l’oscillazione della viremia, legata ad un buon controllo immunologico, possa coesistere con una modesta infiammazione del tessuto epatico, testimoniata dal lieve incremento della stiffness. In questi pazienti, specie se di età avanzata, la biopsia epatica potrebbere essere indicata in quanto permette di valutare l’esistenza di infiammazione e fibrosi e rappresenta un valido supporto per l’eventuale indicazione al trattamento antivirale.
© Effetti srl