L’epatite autoimmune (AIH) è stata trattata con corticosteroidi fin dagli anni ’50, poco dopo la sua descrizione ad opera di J. Waldenström (1). Il razionale alla base di tale terapia fu lucidamente enunciato in un report sulla cosiddetta "epatite lupoide” pubblicato su Lancet nel 1957, che riletto oggi appare visionario (2): “… we consider that immunological destruction of the host’s liver cells best explains the perpetuation of the hepatitis and progression to cirrhosis. If this is so, it would be rational to use therapeutic measures (e.g. cortisone therapy) designed to modify this process, and our experience suggests that cortisone is of benefit in this autoimmune hepatitis.”
I risultati degli studi
La dimostrazione dell’efficacia del trattamento richiese un trial, condotto su soli 49 pazienti, dei quali 22 assegnati al braccio di trattamento con prednisone (3). Nel corso del follow-up, morirono 3 pazienti del gruppo prednisone vs. ben 15 del gruppo di controllo, ad evidenziare la severa storia naturale della malattia e i vantaggi della terapia steroidea. Per avere il supporto di numeri maggiori – in una malattia che era, ed è, piuttosto rara – bisognò attendere gli anni ’80 (4). All’inconfutabile efficacia della terapia cortisonica fece da contraltare il rischio di importanti effetti avversi nel lungo termine, sebbene fossero resi meno severi dall’abituale contemporaneo utilizzo di farmaci steroid-sparing. Fu pertanto accolto con favore un trial clinico randomizzato e controllato in pazienti adulti non cirrotici con AIH, i cui risultati suggerirono una maggiore efficacia di budesonide, un corticosteroide con bassissima esposizione sistemica per via del marcato effetto di primo passaggio epatico, rispetto a prednisone (5). In un secondo trial su una popolazione di età pediatrica, budesonide e prednisone parvero dare risultati sovrapponibili in termini di efficacia (6).
Da allora, il trattamento con budesonide ha ricevuto pari dignità rispetto a quello con prednisone nelle linee guida, restando peraltro un’opzione decisamente meno praticata da molti epatologi.
Uno studio retrospettivo multicentrico real world pubblicato di recente su Hepatology, smentendo la postulata superiorità di budesonide come terapia di prima linea nell’AIH, pare confermare i dubbi sul suo utilizzo (7). Gli Autori si sono potuti avvalere della base di dati dello Spanish Registry for Cholestatic and Autoimmune Liver Diseases (ColHai) e hanno così potuto includere pazienti adulti con diagnosi definita di AIH (score ≥6 stando ai criteri semplificati dell’International Autoimmune Hepatitis Group) (8), sempre corredata da esame istologico di biopsia epatica, tutti sottoposti a trattamento d’induzione con prednisone e azatioprina ovvero budesonide e azatioprina. Hanno, invece, escluso pazienti che avessero ricevuto ogni altro precedente trattamento immunosoppressivo, nonché quelli con forme varianti di AIH o forme con coesistenza di altra malattia epatica possibilmente interferente. L'endpoint primario dello studio era la risposta biochimica, definita come completa normalizzazione sia delle transaminasi, sia delle IgG, in qualsiasi momento e a 6 e 12 mesi dall'inizio del trattamento immunosoppressivo. Gli endpoint secondari erano, invece, il verificarsi di eventi avversi associati agli steroidi e la frequenza d’uso di budesonide come farmaco di prima linea nella AIH. Applicando i sopra elencati criteri, gli Autori hanno potuto analizzare due gruppi di pazienti, appartenenti rispettivamente ad una coorte budesonide (N=101) e ad una coorte prednis(ol)one (N=276). Le due coorti erano simili quanto a prevalenza di sesso femminile (circa il 70%) ed età mediana alla presentazione (61 anni), nonché per coesistenza di altre patologie autoimmuni, positività per autoanticorpi anti-nucleo e anti muscolo liscio, titolo di IgG e caratteristiche istopatologiche alla biopsia (epatite d’interfaccia, infiltrato linfoplasmocitario, alterazioni biliari). Il grado di alterazione della biochimica epatica era invece nettamente più severo nella coorte prednis(ol)one. Nello studio, i tassi di risposta biochimica sono risultati chiaramente superiori nella coorte prednis(ol)one rispetto alla coorte budesonide, sia considerando l’intero follow-up, sia considerando i time-point dei 6 e 12 mesi, come mostrato in Figura 1. Anche dopo applicazione di un propensity score, definito come la probabilità di ricevere l’uno o l’altro trattamento in funzione di una serie di covariate (tra le quali età, sesso, parametri di biochimica epatica, IgG e profilo autoanticorpale, e presenza/assenza di cirrosi), i pazienti trattati con budesonide continuavano a presentare una minore probabilità di raggiungere la risposta biochimica, con odds ratio (OR) di 0.25 (IC 95%: 0.14-0.46; p <0.001) in qualsiasi momento del follow-up e 0.51 (IC 95%: 0.29-0.90; p = 0.022) a 12 mesi dall'inizio del trattamento (Figura 2).
Oltre al trattamento steroideo, nessun'altra caratteristica al basale era associata alla risposta biochimica a 6 o 12 mesi. Tuttavia, i responder rapidi, misurati in base al rapido declino delle transaminasi, presentavano una maggiore probabilità di raggiungere la risposta biochimica sia a 6 che a 12 mesi di trattamento. Analizzando le due coorti separatamente, la risposta rapida è risultata fortemente associata alla probabilità di risposta biochimica nei pazienti trattati con prednis(ol)one, ma non in quelli trattati con budesonide. Un’ulteriore analisi post-hoc, volta a definire il sottogruppo di pazienti nei quali un trattamento con budesonide potesse essere di beneficio ha mostrato che, in presenza di valori di transaminasi al basale uguali o inferiori a due volte il limite superiore del range di normalità, la probabilità di risposta biochimica era simile a quella dei pazienti trattati con prednis(ol)one. Inoltre, nella coorte budesonide (ma non in quella prednis(ol)one) bassi valori di gamma-glutamil transpeptidasi erano associati a migliore probabilità di risposta. Infine, quanto ad effetti avversi correlati a steroidi, essi erano come prevedibile significativamente più comuni nella coorte prednis(ol)one (24% vs. 16%), ma questa differenza veniva annullata se venivano esclusi i pazienti con cirrosi (rappresentati solo nella coorte prednis(ol)one). Il singolo effetto avverso riferibile agli steroidi più comune era l'osteoporosi (Tabella 1).
L'interpretazione dei dati
Il primo punto da tenere in considerazione nell’interpretare questi dati è che i trial che hanno portato alla registrazione di budesonide quale trattamento di prima linea dell’AIH avevano un endpoint primario diverso da quello dello studio spagnolo: si trattava infatti della completa normalizzazione di ALT e AST, in assenza di effetti avversi predefiniti da corticosteroidi (5-6). In effetti, tale (discutibile) endpoint combinato fu raggiunto dal 47% dei pazienti assegnati a budesonide e solo dal 18% dei pazienti assegnati a prednisone, il che non sorprende, dato che favorisce smaccatamente farmaci a supposto minore effetto sistemico. D’altra parte, nello studio retrospettivo spagnolo, la definizione di risposta biochimica include la normalizzazione delle IgG oltre che quella delle transaminasi, il che avvantaggia farmaci con più effetti sistemici. Nel loro editoriale su Hepatology, Steinmann S e Lohse AW notano che l’azione di budesonide nell’AIH, malattia certamente non solo presinusoidale, è verosimilmente da riferirsi alla riduzione dell’effetto di primo passaggio in presenza di significativa infiammazione epatica (9). Per la stessa motivazione, peraltro, gli ipotetici vantaggi in termini di risparmio di effetti avversi per esposizione sistemica potrebbero essere meno importanti di quanto atteso, con l’aggiunta di una minor flessibilità di dosaggio per via della formulazione di budesonide. Che significativi effetti avversi da esposizione sistemica dopo budesonide possano avvenire non manca di conferme nella letteratura (10-11). Infine, va detto che quello di Díaz-González et al. non è stato l’unico studio real world che negli ultimi anni ha messo in discussione l’efficacia di budesonide nella AIH (12-13).
Conclusioni
Il significato complementare degli studi real world e dei trial clinici randomizzati è ben esemplificato dal caso del trattamento dell’AIH con budesonide. Il trial clinico fornisce risposte a quesiti specifici su una popolazione selezionata di malati, in un contesto strettamente controllato: misura l’efficacy, cioè la capacità di un intervento di produrre un effetto, in questo caso normalizzazione delle transaminasi con minori effetti avversi sistemici. Si tratta di un risultato ottenibile in meno di un paziente su due. Gli studi real world, d’altra parte, consentono di tradurre l’efficacy in effectiveness, cioè la capacità di ottenere un risultato desiderato; in questo caso, normalizzazione delle transaminasi e delle IgG in circa 4 pazienti su 5.
Rimane paradossale che, pur essendo stata tra le prime malattie autoimmuni a beneficiare di un trattamento immunosoppressivo, l’AIH sia oggi una delle poche a non avere trovato valide alternative terapeutiche al cortisone. Urge dunque considerare, nell’era delle targeted therapies, approcci più mirati al trattamento di questa enigmatica condizione: non potranno che passare attraverso una caratterizzazione della patogenesi e il vaglio di nuovi studi clinici randomizzati e controllati.
Take-home messages
- Nell’epatite autoimmune non cirrotica, il trattamento con budesonide, steroide con elevato effetto di primo passaggio epatico, è supportato da trial clinici, il cui endpoint primario, combinando efficacia in termini di normalizzazione biochimica con assenza di effetti avversi sistemici, avvantaggia budesonide rispetto a prednis(ol)one.
- Uno studio retrospettivo spagnolo riposiziona il confronto tra questi due farmaci in un’ottica più coerente con la pratica clinica corrente.
- Con budesonide (e azatioprina), una normalizzazione delle transaminasi con scarsi o nulli effetti avversi sistemici è ottenibile in poco meno di un paziente su due.
- Con prednis(ol)one (e azatioprina) una normalizzazione delle transaminasi e delle IgG è attesa per circa quattro pazienti su cinque.
- Le differenze tra le due terapie spiegano lo scarso appeal che ad oggi la terapia con budesonide ha avuto tra gli epatologi.
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