L’OMS ha dichiarato il 5 maggio 2023 la fine dell’emergenza da COVID-19. Il direttore generale, Tedros Ghebreyesus, rendendo omaggio alla dedizione disinteressata degli operatori sanitari, ha sottolineato che la fine dell'emergenza è un’evenienza da festeggiare. Ma molto di quanto ha detto rende assai dubbio che si sia davvero giunti al momento dei festeggiamenti. Nella settimana precedente al 5 maggio, COVID-19 ha causato nel mondo un decesso ogni tre minuti, considerando i soli casi ufficialmente riconosciuti. Alla stessa data, i casi ufficiali di infezione dall’inizio della pandemia erano nel mondo oltre 765 milioni, con quasi sette milioni di morti. Quelli reali sono stati molti di più. I morti, secondo quanto stimato dalla stessa OMS e da ricercatori indipendenti, sarebbero stati 20-21 milioni. Secondo Ghebreyesus, tutto ciò non può non aver lasciato "profonde cicatrici … che devono servire da promemoria permanente della possibilità che emergano nuovi virus, con conseguenze devastanti". Il virus SARS-CoV-2 sta ancora cambiando e di conseguenza permane il rischio che emergano nuove varianti capaci di causare nuove ondate di casi e decessi. A questo proposito, proprio mentre scrivo, è stato annunciato che una nuova ondata è in corso in Cina, dove sarebbero attesi per fine giugno 65 milioni di contagi a settimana, alimentati da varianti ricombinanti (XBB) derivate da omicron. Solo annunci, al momento, e non da fonti ufficiali.
Ufficiale è invece la produzione in Cina di due nuovi vaccini, che includono i tre ceppi ricombinanti XBB.1.9.1, XBB.1.5 e XBB.1.16, noti anche, rispettivamente, come Hyperion, Kraken e Arcturus. Una decisione che fa pensare che il governo cinese non consideri terminate né la pandemia, né forse l’emergenza. Un altro recente comunicato, un gruppo di ricercatori di una università americana ha prospettato la possibilità, nei prossimi due anni, di una nuova ondata causata da una variante del virus diversa da omicron, attribuendo all’evento una probabilità di circa il 40%. Secondo il Washington Post, i dati sarebbero stati consegnati alla Casa Bianca. Mi auguro che i contenuti e l’approccio metodologico con cui è stata formulata questa ipotesi vengano presto resi noti alla comunità scientifica. Per il momento, no comment.
Non sfugge tuttavia la volontà, in chi l’ha proposta, di suggerire come sia ancora troppo presto per abbandonare le precauzioni e ridimensionare la sorveglianza di questa coda della pandemia. Se veramente di coda si tratta. Uno degli estensori della relazione avrebbe affermato che COVID, anche se derubricata a malattia endemica, continuerebbe comunque a rimanere un forte motivo di preoccupazione per la salute. Un'infezione è considerata endemica in una popolazione quando vi è mantenuta in modo continuo, con oscillazioni più o meno marcate del numero dei casi. Che di COVID-19 sia diventato impossibile liberarsi, che se ne debba prevedere negli anni a venire la presenza in tutto il mondo, è praticamente certo. Le varianti di SARS-CoV-2 stanno ritardando la fine della pandemia e la transizione di COVID-19 a malattia endemica. Nell'ultimo anno, tuttavia, la pandemia, come ha avuto la possibilità di affermare il direttore OMS "ha avuto una tendenza al ribasso". I tassi di mortalità sono diminuiti e la pressione sui sistemi sanitari si è allentata, permettendo alla maggior parte dei paesi "di tornare alla vita come la conoscevamo prima di COVID-19". Questi risultati sono stati raggiunti in primo luogo per merito dei vaccini. Al 30 aprile di quest’anno, in tutto il mondo erano state somministrate oltre 13,3 miliardi di dosi di vaccino. Una campagna vaccinale globale e di massa che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
I vaccini sono stati prodotti in tempi assai brevi, cosa impensabile fino a pochi anni fa. Non sono privi di limitazioni, imposte dalle caratteristiche di un virus che, mutando, mette in campo nuove varianti il cui successo è misurato, appunto, dalla capacità di sfuggire ai vaccini. Nei confronti dei quali non siamo tutti ‘uguali’, non tutti rispondiamo allo stesso modo, né manteniamo altrettanto a lungo la capacità di rispondere al virus, specie se entrano in gioco nuove varianti. Oggi, in Italia, più di 50 milioni di cittadini hanno completato il primo ciclo vaccinale e più di 25 milioni di persone hanno contratto almeno un’infezione da SARS-CoV-2. La possibilità che una nuova ondata abbia effetti devastanti è ridotta in proporzione al numero di coloro il cui stato di immunizzazione contribuirà a rendere più difficile la circolazione del virus e a difenderli da un’infezione gravemente sintomatica. Non esiste un virus SARS-CoV-2 buono o rabbonito: val la pena di ricordare che nel 2022 in Italia i casi ufficiali di infezione – quasi tutti imputabili a omicron e a varianti successive da esso derivate – sono stati 18,9 milioni, quelli reali molti di più, e i morti causati dalla variante considerata ‘buona’ sono stati 47.503. La gravità della malattia e la mortalità che ne consegue sono state contenute più dal vaccino che da una pretesa minor patogenicità del virus. Come ha raccomandato Ghebreyesus, COVID-19 deve renderci più determinati a realizzare l’obiettivo che l'OMS si era prefissato nel 1948: il più alto standard di salute possibile, per tutti nel mondo. Senza facili dimenticanze, o comode scappatoie.