ReAd files - Trimestrale di aggiornamento medico - Fondata da Mauro Moroni
cerca

Pandemia da COVID-19 in Italia e Inghilterra: due gestioni a...

Dopo la prima ondata in Inghilterra molti fondi sono stati...

N.3 2021
Clinica
Pandemia da COVID-19 in Italia e Inghilterra: due gestioni a confronto

Margherita Bracchi, Alessia Dalla Pria 
Chelsea and Westminster Hospital, Department of HIV Medicine, Londra
Imperial College, Department of Infectious Diseases, Londra
 

Dopo la prima ondata in Inghilterra molti fondi sono stati investiti nel testing e nella sorveglianza delle nuove varianti, oggi lotta al virus è più che mai attiva in entrambi i paesi.

 

All’inizio di marzo 2020, l’informazione su ciò che avveniva in Italia da colleghi, amici e dalle nostre famiglie giungeva in tempo reale a noi infettivologhe italiane a Londra. La situazione ci sembrò subito surreale. In Inghilterra, infatti, pareva mancare la consapevolezza di quello che sarebbe presto capitato: il virus SARS-CoV-2 veniva equiparato ad un’influenza che si poteva controllare lavandosi bene le mani. Addirittura dal governo era stato trasmesso il messaggio che forse sarebbe stato meglio non cercare di confinare i contagi, in modo da ottenere più rapidamente una “immunità di gregge”.

Mentre in Italia gli ospedali del Nord erano già saturi di pazienti e all’inizio di marzo veniva disposto il primo lockdown nazionale, e nei vari paesi europei si attivavano misure stringenti per contenere il virus, in Inghilterra la quotidianità delle persone non subiva variazioni: le scuole restavano aperte e spostamenti e raduni di persone erano consentiti.

Interventi tardivi e diffusione del virus

Indubbiamente la velocità e l’estensione della diffusione del virus, combinate alle tardive restrizioni di movimento delle persone, soprattutto agli inizi della pandemia, sono stati per entrambi i paesi il vero primo ostacolo al contenimento dei contagi, come è stato anche riportato dall’Independent panel for pandemic prepardness and response dell’OMS/UN (https://theindependentpanel.org/mainreport).

In Italia nella provincia di Bergamo, c’è stato un ritardo nell’imposizione della zona rossa, che ha comportato l’evoluzione di un focolaio epidemico di difficile controllo. Inoltre i problemi di approvvigionamento dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) hanno accentuato le molteplici difficoltà gestionali iniziali.

In maniera simile, in Inghilterra, il ritardo nell’attivazione di misure restrittive forti, associato alla mancanza di DPI (oltre a raccomandazioni poco efficaci riguardo al loro uso) hanno giocato un ruolo cruciale nella diffusione precoce del virus, soprattutto all’interno delle strutture sanitarie. Diffusione che forse, almeno in parte, si sarebbe potuta limitare visto il preavviso di ciò che avveniva oltremare.

La questione DPI

In Inghilterra sono state seguite le linee guida di Public Health England: mascherina chirurgica, schermi facciali/occhiali, un grembiule di plastica per la sola protezione anteriore e i guanti, erano considerati più che sufficienti per chiuque lavorasse a contatto con casi sospetti o confermati di COVID-19. L’uso di respirators, ovvero di maschere filtranti (tipo FFP2 o FFP3), veniva giustificato solo nelle aree “rosse” (terapia intensiva e aree semi-intensive di ventilazione non invasiva) o in caso di rianimazione cardio-polmonare, pena ammonizione per chi agiva diversamente. Inoltre, l’uso di mascherine chirurgiche all’interno di aree “pulite”, non adibite cioè all’assistenza diretta del paziente, non solo non era obbligatorio all’interno dell’ospedale ma era addirittura proibito, al fine di evitare lo spreco di preziosi DPI.

Un approccio rischioso che avveniva nonostante fosse sempre più evidente la potenziale trasmissione virale da parte dei soggetti asintomatici (1). Questa situazione è rimasta invariata per mesi, fino al 15 giugno 2020 (l’uso obbligatorio di mascherina chirurgica nei mezzi pubblici e nei negozi è entrato in vigore ancora più tardivamente, solo il 24 luglio 2020).

Anche in Italia le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità erano basate su un approccio che supportava l’uso di filtranti facciali solo in caso di rischio di generazione di areosol. Qui però, a differenza dell’atteggiamento inglese molto più rigido nel seguire le linee guida, se disponibili (per esempio presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo) i filtranti venivano utilizzati per l`assistenza diretta a tutti casi di COVID-19.

L’evidenza scientifica del ruolo importante della trasmissione via areosol, piuttosto che principalmente droplets, a 18 mesi dall’inizio della pandemia ha poi dato ragione a questo comportamento più cautelativo (2).

In Inghilterra le indicazioni sui DPI sono cambiate il 1 giugno 2021, con raccomandazioni per l’uso di filtranti facciali per l’assistenza a malati di COVID-19 basate su una valutazione di rischio globale (ad esempio, considerando il tipo/durata di interazione con il paziente) e non limitata unicamente alla generazione o meno di aerosol.

Sorveglianza e gestione epidemiologica dei casi

L’approccio di sorveglianza epidemiologica in Italia e Inghilterra è stato alquanto distinto. Mentre in Italia si è assistito ad una grande variabilità inter-regionale dell’efficienza del contact tracing tramite sistema sanitario nazionale e medici di base, con aree di eccellenza come il Veneto (3), in Inghilterra, almeno nei mesi iniziali, la sorveglianza epidemiologica è stata quasi completamente inesistente. La carenza di test ha portato al loro utilizzo solo per i pazienti sintomatici con necessità di ricovero in ospedale. Mancava inoltre un sistema efficace di tracciamento dei contatti, la cui dichiarazione veniva lasciata alla buona volontà dei singoli “casi”.

Inoltre nei mesi iniziali della pandemia, quando non vi erano dati certi sulla durata e modalità di transmissione del virus, in Italia l’atteggiamento è stato cautelativo: i malati dovevano rimanere in isolamento per un minimo di 14 giorni ed era inoltre necessaria la conferma di tampone molecolare negativo al termine della quarantena. In Inghilterra invece, l’isolamento era richiesto per 7-10 giorni, non era ritenuto indicato testare nessuno alla fine dell’isolamento, né in comunità né in ospedale prima della dimissione. Non venivano testati neppure gli anziani trasferiti dall’ospedale alle case di cura, a loro volta costrette, secondo la legistazione di quel periodo, ad accettare i pazienti. Il risultato è stato lo sviluppo di migliaia di fatali focolai pandemici tra marzo e agosto 2020, con un eccesso di mortalità di oltre 29.000 individui registrato nelle case di cura nella sola Inghilterra (4).

Dopo la prima ondata però il governo inglese ha investito fondi nel testing e nella sorveglianza delle nuove varianti. È stato creato un sistema efficace, rapido e di universale accesso sia per soggetti sintomatici sia per i contatti asintomatici con l’invito a testarsi il più possibile. I test molecolari e antigenici sono facilmente e gratuitamente accessibili dai cittadini tramite il sito web del governo, sia recandosi in centri di testing sparsi sul territorio sia con la possibilità di ricevere a casa i kit per test autodiagnostici in meno di 24 ore. Questo evita il problematico passaggio obbligato dalla medicina di base che in Italia intasa il sistema sanitario e rallenta la sorveglianza epidemiologica (Figura 1).

Approccio terapeutico

Quando in Italia, nella disperata lotta al virus, si utilizzavano ampiamente cocktail di farmaci con indicazioni off label o ancora in via di sperimentazione senza il supporto di studi clinici randomizzati, in Inghilterra nessuno di questi farmaci poteva essere prescritto se non all’interno di trial clinici. L’approccio inglese di Evidence Based Medicine si è rivelato assolutamente vincente, ed ha portato all’arruolamento di migliaia di pazienti in studi clinici, come avvenuto per il Recovery trial, in cui sono stati reclutati a livello nazionale oltre 27.000 pazienti, e che per primo ha dimostrato una riduzione di mortalità e morbilità con l’uso di desametasone in pazienti ipossiemici (5), e ha gettato luce sull’inefficacia di altri farmaci usati ampiamente all'inizio dell'epidemia in Italia come idrossiclorochina, azitromicina o lopinavir/ritonavir. Queste terapie sono state utilizzate su larga scala in assenza di evidenza di clinica e con noto potenziale profilo di tossicità e interazioni farmacologiche importanti.

Altro aspetto fondamentale del diverso approccio dei due Paesi è quello delle linee guida. In Inghilterra l’ente NICE (National Institute for Care Excellence) ha rapidamente prodotto linee guida nazionali a cui i vari ospedali hanno fatto da subito riferimento, adattando in maniera pressoché uniforme le linee guida locali. In Italia invece ancora adesso si assiste ad un approccio clinico molto eterogeneo, forse per mancanza di divulgazione e applicazione di linee guida ufficiali di qualità come quelle della Società italiana di malattie infettive (SIMIT). Anche se, alla luce del crescente bagaglio di evidenza scientifica sulla pandemia da COVID-19, le difformità nella gestione terapeutica dei due paesi si sono attenuate nel corso dell’ultimo anno, continuano comunque a sussitere alcune differenze. Per esempio l’utilizzo degli anticorpi monoclonali (mAb) per le forme lievi/moderate. L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ne ha approvato l’utilizzo mentre NICE sta aspettando un’evidenza scientifica di livello superiore e al momento in Inghilterra i mAb sono utilizzati solo all`interno di trial clinici.

L’approccio ai vaccini

Infine la scelta vincente delle autorità sanitarie inglesi è stata quella di investire sui vaccini, promuovendone la progressione della sperimentazione, lo sviluppo e la produzione su larga scala. Questo è avvenuto anche grazie alla possibilità di utilizzare una piattaforma vaccinale innovativa disponibile sul territorio, di Oxford/AstraZeneca, che ha portato ad ottenere con rigore scientifico e rapidità inaspettata la produzione di vaccini anti-SARS-CoV-2 efficaci e sicuri, seppur non infallibili.

Inoltre la possibilità di gestire a livello nazionale la compravendita di vaccini (senza essere cioè legati a scelte dettate dall’Unione Europea), insieme ad un approvvigionamento vaccinale rapidissimo e alla scommessa dell’efficacia del distanziamento delle dosi, hanno portato ad una campagna vaccinale tra le più efficienti d’Europa con, ad oggi (luglio 2021) oltre 78 milioni di dosi somministrate (più del 50% della popolazione con due dosi somministrate).

Altro punto di interessante confronto riguarda il differente approccio sul limite di età imposto per le vaccinazioni, in considerazione del rischio di trombosi e trombocitopenia associato al vaccino AstraZeneca. L’Inghilterra ha stabilito il limite di età sopra i 40 anni mentre in Italia il cut-off è 60 anni. L’approccio inglese, meno focalizzato sul rapporto rischio/beneficio individuale, ha dato nuovamente priorità all’aspetto di sanità pubblica.

Un aspetto che a nostro avviso ha avuto un impatto positivo sull’accettazione del piano vaccinale da parte della popolazione inglese rispetto a quella italiana (Figura 2) è stata la più chiara comunicazione dei piani attraverso una task force di esperti consolidata ed efficace guidata da Chris Whitty, infettivologo e chief medical officer.

In Italia si è assistito ad una mancanza di leadership e il continuo dibattito di colleghi infettivologi e microbiologi esperti con opinioni contrastanti divulgate dai media ha favorito confusione nell’opinione pubblica. In Inghilterra le voci dei singoli considerati esperti con opinioni contrastanti non sono state diffuse da media e social network nello stesso modo, e questo ha probabilmente favorito, in aggiunta alla policy di vaccinazione pianificata in UK, l’uptake vaccinale dei primi sei mesi.

Conclusioni

Un confronto sistematico della gestione pandemica tra i due paesi è in realtà molto complesso, e questo articolo vuole offrire spunti di riflessione sulle differenze e similitudini che più ci hanno colpito. La lotta al virus è oggi più che mai attiva sia in Italia sia in Inghilterra. Per poterne uscire vincitori, a nostro parere, bisogna continuare a usare le armi che si sono rivelate vincenti: investire sul testing, avere un approccio e linee guida uniformi evidence based ed infine, ovviamente, vaccinare.

 

Bibliografia

  1. Wilmes, P. et al. SARS-CoV-2 transmission risk from asymptomatic carriers: Results from a mass screening programme in Luxembourg. Lancet Reg. Health Eur. 2021; 4: 100056.
  2. Greenhalgh, T. et al. Ten scientific reasons in support of airborne transmission of SARS-CoV-2. Lancet 2021: 397, 1603-1605.
  3. Cassone A & Crisanti A. Can reasoned mass testing impact COVID-19 outcomes in wide community contexts?An evidence-based opinion: Mass testing and outcomes of COVID-19 in Lombardy and Veneto. Pathog. Glob. Health 2021; 115, 203-207.
  4. Morciano M, et al. J. Excess mortality for care home residents during the first 23 weeks of the COVID-19 pandemic in England: a national cohort study. BMC Med. 2021; 19.
  5. The RECOVERY Collaborative Group. Dexamethasone in Hospitalized Patients with Covid-19. N. Engl. J. Med. 2021; 384, 693-704.

◂ Indietro

Richiedi gratuitamente la Newsletter
Richiedi gratuitamente
la Newsletter
×
icon