L’epatite delta è la forma più aggressiva di epatite virale, caratterizzata da una rapida evoluzione verso la cirrosi e da un rischio marcatamente aumentato di sviluppare carcinoma epatocellulare (HCC), il più comune tumore maligno del fegato (1). Il virus dell’epatite D (HDV), scoperto alla fine degli anni ’70 dal gruppo guidato dal Professor Mario Rizzetto (2), è un virus difettivo, satellite del virus dell’epatite B (HBV), da cui dipende per infettare gli epatociti, diffondersi all’interno del fegato e propagarsi da un individuo all’altro (3). Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa 254 milioni di persone nel mondo sono affette da infezione cronica da HBV, e il 5% di queste sarebbe coinfettato da HDV (4).
Tuttavia, secondo proiezioni più recenti, il numero di persone infette da HDV si collocherebbe tra 12 e 60 milioni a livello globale (5). L’ampiezza di questa forbice è attribuibile principalmente alla scarsità di programmi di screening sistematici, alla sottoutilizzazione dei test sierologici e molecolari, nonché all’assenza di criteri diagnostici uniformi a livello internazionale.
L’articolo di Lombardo e coll., pubblicato su Pathogens ad aprile 2024, offre una panoramica aggiornata e approfondita delle evidenze virologiche, molecolari e cliniche che collegano l’infezione da HDV allo sviluppo dell’HCC (6).
Aspetti virologici
L’HDV, il più piccolo patogeno virale noto che infetta l’uomo, presenta caratteristiche biologiche simili a quelle dei viroidi delle piante. Appartiene al genere Deltavirus all’interno della famiglia Kolmioviridae (7). Sono stati identificati otto genotipi, con un’omologia di sequenza compresa tra l’81% e l’89%, e numerosi sottogenotipi (1). Il genoma dell’HDV è costituito da un RNA circolare a singolo filamento di circa 1700 nucleotidi, che codifica per un’unica piccola proteina non enzimatica: l’antigene delta (HDAg) (3). L’HDAg è espresso in due isoforme con funzioni complementari:
- la forma piccola, chiamata S-HDAg, che regola l’importazione nucleare del genoma dell’HDV e il processo di replicazione
- la forma grande, denominata L-HDAg, che inibisce la replicazione e partecipa all’assemblaggio dei virioni.
Durante la replicazione dell’HDV, le due isoforme di HDAg formano una ribonucleoproteina che successivamente viene rivestita, nel reticolo endoplasmatico, da un mantello (envelope) costituito dalle tre proteine dell’envelope (HBsAg) dell’HBV. Di conseguenza, l’involucro esterno dell’HDV è identico a quello dell’HBV, il che ha importanti implicazioni nell’interazione tra i due virus. Infatti, il dominio preS1 della proteina di superficie Large dell’HBV (L-HBsAg) è fondamentale per l’infezione degli epatociti da parte di HDV, in quanto consente il legame con il recettore NTCP (sodium taurocholate cotransporting polypeptide). La proteina di superficie Small (S-HBsAg) è invece essenziale per l’assemblaggio dei virioni dell’HDV.
Dopo l’ingresso nella cellula, la replicazione dell’RNA dell’HDV all’interno del nucleo avviene tramite un meccanismo detto double rolling circle, che non richiede la polimerasi codificata dall’HBV, ma le RNA polimerasi della cellula ospite (3,6,8) (Figura 1).
Sebbene il ciclo virale dell’HDV sia dipendente da HBV (Figura 1), alcuni studi hanno dimostrato la possibilità di persistenza virale anche in assenza di replicazione attiva dell’HBV, soprattutto in contesti sperimentali e post-trapianto. È stato inoltre suggerito che l’HDV può propagarsi attraverso la proliferazione degli epatociti (9). Questo meccanismo di diffusione mediata dalla divisione cellulare potrebbe avere una rilevanza clinica significativa per la persistenza dell’HDV e potrebbe limitare l’efficacia antivirale dei farmaci che agiscono sull’infezione de novo, come l’inibitore dell’ingresso virale bulevirtide (6,9).
Evidenze patogenetiche
La patogenesi del danno epatico da HDV non è ancora del tutto chiarita. Si ritiene che le alterazioni tissutali siano mediate prevalentemente dalla risposta immunitaria dell’ospite, come suggerito dalla presenza di cellule T CD4+ specifiche per l’HDAg e da un’intensa attività necro-infiammatoria all’esame istologico. Nei pazienti con tripla infezione HIV-HBV-HDV, la deplezione di linfociti T CD4+ si associa a livelli più alti di HDV RNA, confermando il ruolo cruciale dell’immunità adattativa nel controllo dell’infezione. Inoltre, l’infezione da HDV stimola una risposta immunitaria innata intensa ma inefficace, con iperproduzione di interferoni e citochine pro-infiammatorie che non riescono a controllare la replicazione virale (9,10). La produzione di TNF-α, interleuchine come IL-6 e IL-22, e il coinvolgimento di cellule immunitarie come i macrofagi M2 e le Treg contribuiscono alla soppressione della risposta antitumorale. L’esaurimento funzionale delle cellule T CD8+, la disfunzione delle cellule natural killer (NK) e la deplezione delle cellule Mucosal-Associated Invariant T (MAIT) concorrono alla cronicizzazione dell’infezione e ad un ambiente infiammatorio cronico che favorisce la tumorigenesi (3,6,11) (Figura 2).
Rimane ancora oggetto di dibattito l’eventuale attività citopatica diretta esercitata dall’infezione da HDV. A livello molecolare, l’L-HDAg attiva numerose vie di segnale oncogeniche, tra cui TGF-β/c-Jun, NF-κB e STAT3, favorendo la proliferazione cellulare, l’alterazione epigenetica e la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) (12). Questi meccanismi contribuiscono all’instabilità genomica e alla trasformazione neoplastica. S-HDAg agisce invece sul gene GSTP1, riducendo la sintesi dell’enzima e facilitando il danno al DNA. L-HDAg è anche in grado di interagire con fattori trascrizionali cellulari (Elk-1, SRF), promuovendo l’espressione di oncogeni come c-fos. Inoltre, HDV induce iperacetilazione istonica e l’up-regulation del DNMT3b, implicata nella metilazione aberrante del DNA. Studi recenti hanno identificato una firma molecolare distintiva dell’HCC correlato all’HDV, caratterizzata dalla sovraregolazione di geni associati al ciclo mitotico e alla replicazione del DNA (CDC6, CDCA5, MCM4, MCM7), indicando un ruolo diretto del virus nella promozione della crescita tumorale (6, 11) (Figura 2).
Evidenze cliniche
Clinicamente, l’infezione da HDV comporta un rischio significativamente più elevato di evoluzione verso la cirrosi e l’HCC rispetto all’infezione da HBV isolata. I tassi cumulativi di incidenza dell’HCC nei pazienti con epatite delta cronica raggiungono il 23% a 5 anni nei cirrotici. Fattori di rischio includono l’età >50 anni, il sesso maschile, l’elevata carica virale di HDV, il basso numero di piastrine e l’aumento del BMI (11). Due recenti metanalisi hanno confermato che la coinfezione HBV-HDV è associata a un’incidenza significativamente più alta di HCC rispetto alla sola infezione da HBV, indipendentemente da etnia, coinfezione da HIV o stadio di fibrosi epatica. Studi di coorte hanno stimato un rischio fino a 6 volte maggiore di HCC nei pazienti HDV-positivi rispetto ai monoinfetti da HBV (6,11).
Dal punto di vista clinico, l’HCC associato all’HDV si presenta spesso in epatopatie più avanzate, con fegato di dimensioni ridotte, varici esofagee più marcate e piastrinopenia. Rispetto all’HCC da HBV, i tumori HDV-correlati tendono ad una minore multifocalità, con livelli inferiori di alfa-fetoproteina e una maggiore possibilità di diagnosi precoce e di possibili ricadute sui criteri di Milano per il trapianto di fegato (6,13).
Un enigma ancora aperto
Nonostante i numerosi dati preclinici e clinici, il ruolo oncogenico diretto dell’HDV rimane controverso. Le difficoltà nel discriminare l’effetto dell’HDV da quello dell’HBV, la variabilità dei modelli sperimentali e l’influenza di fattori etnici, genetici e ambientali rendono complessa l’interpretazione dei risultati. Tuttavia, le più recenti evidenze molecolari suggeriscono che il virus possa esercitare un effetto oncogenico indipendente attraverso la disregolazione della risposta immunitaria, e specifiche alterazioni epigenetiche e genomiche. In attesa di ulteriori studi meccanicistici e clinici di lungo termine, il rompicapo della patogenesi dell’HCC HDV-correlato rimane irrisolto, ma costituisce una delle sfide più urgenti per la ricerca epatologica contemporanea.
L’avvento di nuovi farmaci come bulevirtide offre un’opportunità concreta per modulare la storia naturale dell’epatite cronica da virus delta, ma saranno necessari dati di follow-up a lungo termine per verificarne l’effettivo impatto sull’incidenza di HCC. In un contesto di crescente attenzione verso strategie terapeutiche personalizzate, la comprensione dei meccanismi specifici dell’epatocarcinogenesi HDV-mediata rappresenta un tassello cruciale per lo sviluppo di approcci mirati ed efficaci.
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