Nell’immaginario collettivo l’epidemia di AIDS viene quasi sempre associata al riconoscimento dei primi casi nel 1981, ma il fatto di maggior rilievo a nostro avviso è la scoperta del virus della immunodeficienza umana nel 1983. A 40 anni da questa data, abbiamo incontrato online il dottor Paolo Lusso, direttore della Viral Pathogenesis Section del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, National Institutes of Health, al quale abbiamo chiesto di condividere con noi il suo "vissuto" ed i suoi ricordi di quell’evento.
“Io ho fatto parte del gruppo diretto da Bob Gallo al National Cancer Institute di Bethesda, che ha pubblicato l’isolamento del virus HIV nel 1984, un anno dopo il gruppo francese di Luc Montagnier. Sulla questione della primogenitura dell’isolamento del virus è ormai accettata da parte della comunità scientifica l’equa divisione dei meriti tra i due gruppi di ricerca: l’identificazione del virus da parte dei francesi non avrebbe avuto luogo senza i risultati ottenuti in precedenza dall’équipe di Gallo, come l’identificazione dei metodi di coltura dei retrovirus e del primo retrovirus umano: l’HTLV-1. Senza dubbio le ricerche su HIV sono state rese molto più semplici grazie al modello dell’HTLV-1. Nel laboratorio di Gallo in quegli anni erano venuti diversi scienziati per formarsi sui metodi di studio, coltura, espansione e caratterizzazione dei retrovirus umani, tra i quali Francoise Barrè-Sinoussi, che, tornata in Francia, li ha applicati con grande successo, pubblicando nel 1983 i dati su Science (1).
Apro qui una parentesi: come ha raccontato Bob Gallo in una recente intervista (2), la prima versione dell’articolo dei francesi era stata rifiutata da Nature, e Gallo ha suggerito loro di sottoporlo a Science, di cui era revisore, ed egli stesso ha apportato diversi miglioramenti al manoscritto, favorendone la pubblicazione. Fondamentale per la scoperta era stata l’intuizione da parte dei ricercatori francesi dell’aggiunta continua di linfociti CD4 alla coltura, dal momento che il virus continuava a distruggerli smettendo così di replicarsi, mentre il gruppo di Gallo è poi riuscito a far crescere il virus in una linea cellulare continua l’anno successivo (3), dato fondamentale per la messa a punto del primo test diagnostico per rilevare la presenza di anticorpi contro il virus nel sangue (4-6). Purtroppo, dopo un primo periodo di collaborazione tra Gallo e Montagnier, è arrivata la controversia sul brevetto per i ricavi del test del sangue, e questo ha creato molti problemi: tra i due centri di ricerca è iniziata una vera e propria “guerra” segnata anche da prese di posizione importanti, come la ritardata introduzione in Francia del test messo a punto dal team di Gallo, che ha causato il mancato riconoscimento del sangue infetto che veniva trasfuso nei soggetti emofilici (7).
Ricordo quel periodo come eccitante e convulso. Sicuramente il riconoscimento dei primi casi di polmonite interstiziale da Pneumocystis carinii nel 1981 dai CDC di Atlanta avrebbe potuto essere solo una delle tante segnalazioni di fenomeni patologici inusuali: nessuno scienziato vi aveva prestato particolare attenzione, come anche Gallo stesso ha poi ammesso. Ricordo nel 1982 nel Reparto di Medicina Interna delle Molinette di Torino il primo caso di un uomo che presentava tutti i sintomi che oggi attribuiremmo all’AIDS - anemia, linfocitopenia, infezioni opportunistiche - e del quale noi, senza precauzioni particolari, studiammo sangue e midollo arrivando ad una diagnosi di “anemia refrattaria”. Anche in reparti universitari di alto livello la conoscenza di questa malattia era ancora minima. Ci si rese conto della sua importanza solo quando l’ondata delle infezioni diventò irrefrenabile da entrambe le parti dell’Atlantico.
In questo flusso di eventi mi piace ricordare alcuni eroi poco celebrati: prima di tutto i clinici che, grazie ad una mente inquisitiva e all’intuito biologico ed epidemiologico, hanno rappresentato una delle “chiavi” principali di queste scoperte, come Jaques Leibowitch e Willy Rozenbaum a Parigi che segnalarono a Montagnier e colleghi l’importanza di studiare i primi casi di AIDS ed ebbero l’idea di offrire i campioni clinici ideali per le ricerche, i linfonodi. Grande merito va riconosciuto a Jean Claude Chermann, che era a capo dell’èquipe di Barrè Sinoussi, al quale si deve l’idea dell’aggiunta dei CD4 alle colture e di utilizzare un anticorpo anti-IFN per ridurre i meccanismi antivirali naturali nelle colture.
Tornando al filo della nostra storia, l’identificazione di HIV giunge come una liberazione per noi ricercatori, trattandosi di una malattia gravissima e difficilmente arginabile. Il limite principale del lavoro dei francesi era che il retrovirus era stato isolato da un paziente che aveva solo una linfoadenopatia ma non ancora l'AIDS conclamato. Quindi, come potevamo dire se questo virus, anche se nuovo, poteva essere la causa dell'AIDS o semplicemente un altro agente opportunistico che cresceva in un individuo immunocompromesso? E onestamente, dal loro articolo non era nemmeno così chiaro che si trattasse di un nuovo virus e non semplicemente di una variante dell'HTLV-II: sapevamo però che i suoi effetti biologici sulle cellule T erano nuovi. Per dimostrare il nesso causale con l'AIDS, avevamo bisogno di un test del sangue e di un numero maggiore di isolati. Il test messo a punto da Gallo ed i nuovi isolati hanno quindi chiarito che HIV era effettivamente la causa della nuova malattia (3-6). A questo punto sono stati resi disponibili ai laboratori di tutto il mondo virus, test e strumenti per le ricerche, che presto hanno portato allo sviluppo dei primi farmaci a partire dal AZT, in grado di aprire la strada verso la moderna terapia antiretrovirale di combinazione. Penso che la terapia potrebbe oggi rappresentare la soluzione al problema AIDS, se fosse disponibile ovunque insieme alle infrastrutture sanitarie idonee a seguire le persone sieropositive.
Cosa ci può raccontare del contesto e delle sue esperienze di quegli anni?
“Io sono approdato a Bethesda nel 1985, l’anno successivo alla scoperta. Ricordo i laboratori del National Cancer Institute come un ambiente eccitato ed eccitante, in cui ferveva un lavoro entusiasmante: Gallo e il suo gruppo perseguivano da anni l’obiettivo di curare il cancro e di trovarne la causa, dimostrando il nesso tra retrovirus umani e leucemie umane. Io stesso ero approdato all’NCI per studiare se la leucemia linfatica cronica fosse causata da un retrovirus (trasportando i campioni di leucemie umane nella cabina del mio volo aereo, una cosa oggi impensabile). Negli anni successivi purtroppo, almeno fino al 1991, quando venne firmato un armistizio tra i due paesi, il lavoro dell’équipe di Gallo fu disturbato dall’ombra della controversia e della lotta per il brevetto. Sicuramente Gallo può avere avuto colpe nel sopravvalutare i propri meriti e nel sottovalutare quelli dei francesi: dal punto di vista scientifico è stato certamente spregiudicato, ma ha sempre cercato di far progredire la scienza in ogni modo possibile”.
Aver identificato HIV ha dato il via a percorsi di diagnosi e cura che hanno portato a risultati insperati, ma anche a ricerche importantissime ed ha fatto da volano allo sviluppo della ricerca in virologia umana: cosa manca per arrivare all’eradicazione di HIV?
“Forse per nessun altro virus sono stati fatti così tanti progressi: se oggi l’eradicazione di HIV non è ancora possibile, forse lo sarà in futuro con la terapia genica basata su sistemi come la CRISPR/Cas9, mirando in modo estremamente preciso gli enzimi CRISPR ad un bersaglio molto difficile da raggiungere, il DNA provirale integrato nel DNA, nascosto dentro due strati di membrana in ogni cellula latentemente infetta. Un obiettivo ancora lontano per le tecnologie odierne. Personalmente trovo tutte le altre strategie di eradicazione idee bellissime ma senza futuro, come gli impegnativi trapianti di midollo utilizzando i donatori di un difetto genetico “fortunato” come la delezione di CCR5 che è protettiva nei confronti di HIV. Si può invece ipotizzare, nel caso del successo del sistema CRISPR o simili, di estrarre le cellule dai soggetti infettati, trattarle fuori dal corpo con CRISPR per eliminare il CCR5 e poi reinfonderle nel soggetto. Questo è sicuramente più fattibile anche oggi. Oltre ai costi, però, si tratta di cure molto complesse, non esportabili in ampie popolazioni di soggetti infettati”.
Quali sono le sue speranze per il futuro della ricerca contro HIV?
“Il vaccino potrebbe essere uno strumento, se fattibile, tollerabile e di largo impiego: oggi non abbiamo un vaccino efficace, non tanto per la variabilità virale (che riguarda solo alcune zone del mantello esterno), quanto per la difficoltà di colpire le regioni costanti dell’involucro virale, il cosiddetto envelope, come la regione di legame al CD4. Possiamo però confortarci con una buona notizia: il vaccino è possibile. Sappiamo infatti da molti studi che una quota significativa di pazienti infettati prima o poi sviluppa gli anticorpi protettivi (i broadly neutralizing antibodies o bNAbs), che effettivamente sono stati isolati dalle cellule B di molti soggetti (8). Sappiamo anche che questi Ab, da soli o in combinazione, sono ampiamente protettivi nelle scimmie (9). Purtroppo le regioni bersaglio dei bNAbs sono nascoste, circondate da glucidi che il sistema immunitario non riesce a riconoscere, una “nebbia che confonde le idee del sistema immunitario”. Inoltre il movimento continuo del mantello del virus (conformational camouflage) rende difficoltoso il loro riconoscimento da parte del sistema immunitario. Tra i diversi approcci vaccinali, il nostro gruppo fin dal 2016 ha scelto di utilizzare la tecnologia dell’mRNA, che presenta proprietà particolarmente utili per un vaccino contro HIV-1 (10). Il nostro candidato vaccino è in grado di indurre risposte immunitarie contro diversi componenti virali e di promuovere la produzione in vivo di particelle simil-virali native (VLP) in quanto Env e Gag sono coespresse contemporaneamente. La cosa straordinaria è che, con l’mRNA, è il nostro stesso corpo a diventare la fabbrica del vaccino. Supportati dalla Gates Foundation, abbiamo testato il vaccino sia nei topi che nei macachi Rhesus. E l'mRNA è stato all'altezza delle nostre aspettative. Non solo i macachi hanno sviluppato risposte immunitarie potenti, sia umorali che cellulari, ma anche, dopo ripetute immunizzazioni, abbiamo iniziato a osservare la comparsa di anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro, anche se a titoli ancora relativamente bassi. In particolare, gli animali sono stati significativamente protetti dall'infezione mucosale con un virus eterologo difficile da neutralizzare, SHIV-AD8. La riduzione del rischio calcolata è stata del 79% per ogni esposizione (11). Sulla base di questi risultati, l’HVTN ha accettato di finanziare un nostro trial clinico di fase I nell’uomo, che inizierà a inizio 2024. Se l’eradicazione resta ancora lontana, il vaccino per la protezione contro HIV-1 nell’uomo potrebbe essere più vicino di quanto pensiamo”.
- Barré-Sinoussi F, Chermann JC, Rey F, et al. Isolation of a T-lymphotropic retrovirus from a patient at risk for acquired immune deficiency syndrome (AIDS). Science. 1983; 4599 (220): 868-71.
- Lusso P. Dr. Robert Gallo and the Discovery of HIV. Current HIV Research. 2023; 21 (1):2-5.
- Popovic M, Sarngadharan MG, Read E, Gallo RC. Detection, Isolation, and Continuous Production of Cytopathic Retroviruses (HTLV-III) from Patients with AIDS and Pre-AIDS. Science. 1984; 224 (4648): 497-500.
- Sarngadharan MG, Popovic M, Bruch L, et al. Antibodies reactive with human T-lymphotropic retroviruses (HTLV-III) in the serum of patients with AIDS. Science. 1984;224(4648):506-8.
- Schüpbach J, Popovic M, Gilden RV, et al. Serological analysis of a subgroup of human T-lymphotropic retroviruses (HTLV-III) associated with AIDS. Science. 1984;224(4648):503-5.
- Safai B, Sarngadharan MG, Groopman JE, et al. Seroepidemiological studies of human T-lymphotropic retrovirus type III in acquired immunodeficiency syndrome. Lancet. 1984;1(8392):1438-40.
- Casteret A-M. L'affaire du sang, Éditions La Découverte, 1992, ISBN 2-7071-2115-0.
- Burton DR. & Hangartner L. Broadly neutralizing antibodies to HIV and their role in vaccine design. Annu Rev Immunol 2016; 34:35-659.
- Mascola J, Stieger G, VanCott TC, et al. Protection of macaques against vaginal transmission of a pathogenic HIV-1/SIV chimeric virus by passive infusion of neutralizing antibodies. Nat. Med. 2000; 6:207–210.
- Lusso P. The quest for an HIV-1 vaccine: will mRNA deliver us from evil? Expert Review of Vaccines. 2023;22 (1):267-269.
- Zhang P, Narayanan E, Liu Q, et al. A multiclade env-gag VLP mRNA vaccine elicits tier-2 HIV-1-neutralizing antibodies and reduces the risk of heterologous SHIV infection in macaques. Nat Med. 2021;27(12):2234-2245.