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Infezione da HIV e popolazioni migranti | Dai dati...

Dai dati epidemiologici alla gestione clinica, alle scelte più...

N.1 2022
Terapia
Infezione da HIV e popolazioni migranti

Gabriella d’Ettorre, Giancarlo Ceccarelli
Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Università Sapienza Roma
 

Dai dati epidemiologici alla gestione clinica, alle scelte più razionali di terapia antiretrovirale: focus sull’impatto di HIV sulle popolazioni migranti e sulle risposte offerte da regimi antiretrovirali semplici e tollerati nel lungo termine

 

Impatto dei flussi migratori

Ineguaglianze nell’accesso alle risorse e violente crisi regionali negli ultimi vent’anni hanno progressivamente spinto un rilevante numero di persone ad allontanarsi dalle proprie terre per cercare rifugio in paesi lontani da quello d’origine (Figura 1) (1-3). Un’area particolarmente interessata dai flussi migratori è quella del bacino del Mediterraneo e delle coste italiane. La presenza di migranti sul territorio nazionale non si limita ai nuovi ingressi; è andata infatti progressivamente crescendo la quota di persone che hanno completato il percorso migratorio arrivando alla richiesta di cittadinanza. Contestualmente è aumentata la presenza dei cosiddetti migranti di seconda generazione. In conseguenza di ciò il numero di immigrati in Italia è cresciuto fino a superare i 5 milioni di presenze nel 2018 con un’età media inferiore rispetto a quella della popolazione autoctona (35 anni vs 46 anni) (2-3).

Epidemiologia dell’infezione da HIV nella popolazione migrante

La conoscenza e il monitoraggio dello stato di salute dei migranti, e più in generale degli stranieri, è un aspetto essenziale dei programmi di sanità pubblica relativi all’accoglienza. Tuttavia l’emersione delle problematiche sanitarie in questa popolazione vulnerabile resta complessa e spesso sottostimata. Il rischio di sottovalutazione appare significativamente rilevante nel caso delle malattie sessualmente trasmissibili e dell’HIV, considerato lo stigma sociale e culturale che generalmente le accompagna (Figura 1).

Secondo recenti evidenze le persone migranti che si stabiliscono in una nuova area geografica sono esposte al rischio di contrarre l’infezione da HIV indipendentemente dal paese di provenienza. Infatti, sulla base degli studi disponibili, emerge che circa il 40% della popolazione straniera ha contratto il virus nel paese di immigrazione e che nella maggior parte dei casi la diagnosi è stata formulata dopo oltre 10 anni dall’arrivo. In Italia, in particolare, è riportato che la quota di nuove diagnosi di infezione da HIV negli immigrati è aumentata dall’11% nel 1992 al 29,7% nel 2018 e che circa il 34% dei migranti ha contratto l’infezione dopo l’arrivo nel paese di accoglienza. La diagnosi post-arrivo avviene nel 56% dei casi tra uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini e nel 31% tra eterosessuali. Inoltre va sottolineato che per il 72,1% dei migranti la diagnosi è tardiva e avviene meno di 6 mesi prima dello sviluppo di una condizione AIDS definente. I fattori che possono contribuire ad incrementare la vulnerabilità all’infezione nei migranti sono schematizzati nella Figura 2

Gestione clinica e terapia antiretrovirale. Quali bisogni?

La gestione del paziente immigrato con infezione da HIV pone pertanto una serie di problematiche che vanno dalla barriera linguistica, che spesso rende difficile il rapporto medico-paziente, alla “retention in care”. Infatti la compliance rispetto alla cura può essere compromessa sia dalla condizione precaria che spesso vive il paziente nel paese che lo ospita, sia dai problemi di stigmatizzazione che vive all’interno della sua stessa comunità di origine. Questi aspetti sono ben evidenziati da alcuni studi che mostrano come la gestione del paziente migrante con infezione da HIV sia gravata da un significativo rischio di risultati subottimali, rispetto a quelli ottenibili nelle persone autoctone a parità di condizione clinica e di risorse terapeutiche.

A conferma, da un recente studio retrospettivo condotto su 557 immigrati sieropositivi residenti in Italia è emerso che, sebbene più dell'87% fosse in terapia antiretrovirale, il 26,6% di essi rimaneva con HIV-RNA rilevabile (3). Saracino et al. hanno confermato che la popolazione migrante, a parità di regimi terapeutici, ha un rischio di fallimento pari a 6,4 volte per 100 persone/anno rispetto a 2,7 riportato negli autoctoni. Dall’analisi multivariata emerge che sia il rischio di fallimento virologico che quello alla terapia sono rispettivamente di 1,9 e 1,16 volte maggiori rispetto alla popolazione nativa.

Gli autori suggeriscono che tali evidenze siano in larga parte da ricondurre ad una mancata aderenza del paziente alla terapia (4). A supporto di questa ipotesi, lo studio di Lima et al. riporta che la popolazione straniera ha un livello due volte maggiore di mancata aderenza alla terapia antiretrovirale rispetto alla popolazione nativa (5). Tutto ciò rende la scelta della terapia antiretrovirale un momento delicato che richiede particolare attenzione, in quanto in grado di condizionare la storia clinica del paziente migrante. In questo senso il medico dovrebbe tentare di individuare regimi terapeutici ad alta barriera genetica, efficaci virologicamente, ma anche semplici da assumere.

Le attuali linee guida nella scelta dei regimi di prima linea ci offrono, a parità di efficacia, diverse opzioni che prevedono l’impiego sia di single tablet regimen (STR) che di schemi a più compresse.

La differenza dei diversi regimi terapeutici tuttavia non è legata solo alla modalità di assunzione dei farmaci e all’aderenza, ma anche a quelli che possono essere i potenziali effetti collaterali a breve e/o lungo termine. Alcuni studi clinici forniscono in questo senso soluzioni terapeutiche che appaiono potenzialmente ritagliate sulle esigenze della gestione della persona migrante. Ad esempio lo studio Amber è stato condotto su una popolazione di soggetti naive al trattamento randomizzati in due bracci (1:1): darunavir/cobicistat/emtricitabina/tenofovir alafenamide (D/C/F/TAF) oppure darunavir/cobicistat + emtricitabina/tenofovir disoproxil (D/C+F/TDF). Dopo 48 settimane di follow-up i pazienti potevano continuare il regime in corso o modificarlo a D/C/F/TAF. A 96 settimane l’85,1% dei pazienti trattati con D/C/F/TAF e l’83,7% del braccio di controllo che a 48 settimane modificava il regime da D/C+ F/TDF a D/C/F/TAF e raggiungeva la soppressione virologica. In questi pazienti la funzionalità renale e il metabolismo osseo rimanevano stabili nel braccio di studio e miglioravano in quello di controllo, il rapporto colesterolo totale/HDL aumentava rispetto al basale di 0,25 e 0,24 rispettivamente nel braccio di studio e in quello di controllo. L’analisi genotipica non evidenziava la presenza di mutazioni di resistenza a darunavir né a tenofovir confermando l’alta barriera genetica di D/C/F/TAF.

I risultati ottenuti nel paziente naive sono stati confermati anche nel paziente experienced.

Lo studio Emerald ha arruolato pazienti con precedenti fallimenti virologici e mutazioni archiviate (0 a darunavir; 37% a emtricitabina; 22% a tenofovir) al regime D/C/F/TAF confermando a 96 settimane di trattamento il successo virologico (6).

Di interesse, nell’ambito delle seconde linee di trattamento, sono anche i risultati del recente studio NADIA. Questo trial randomizzato di non inferiorità effettuato in sette centri dell'Africa subsahariana arruolava 464 pazienti con precedente fallimento virologico alla prima linea di trattamento. L’obiettivo era di paragonare pazienti trattati con dolutegravir (DTG) o darunavir/ritonavir (DRV/r) associati a tenofovir/lamivudina (TDF/3TC) o zidovudina/lamivudina (AZT/3TC) con l’outcome primario di ottenere una carica virale <400 copie/mL alla settimana 48 di trattamento. Nel gruppo trattato con DTG l’obiettivo veniva raggiunto nel 90.2% dei pazienti mentre nel gruppo trattato con DRV nel 91.7%, confermando la non inferiorità di DTG rispetto a DRV in questo setting di pazienti. Anche relativamente agli eventi avversi non erano osservate differenze statisticamente significative tra i due gruppi di trattamento (7-8). Regimi terapeutici come questi, semplici nella posologia e che non richiedono uno stretto monitoraggio strumentale e di laboratorio per il controllo dei possibili effetti collaterali, possono essere una risorsa efficace nella gestione delle criticità legate al trattamento delle persone straniere. Tuttavia un’ulteriore implementazione della qualità dell’assistenza ai migranti deve considerare con attenzione le variabili che correlano con il rischio di fallimento terapeutico. La persona migrante infatti, a causa del frequente disagio socio-culturale, non sempre è aderente al trattamento o in grado di rispettare le cadenze cronologiche della cura e del suo monitoraggio. Tutto ciò contribuisce ad enfatizzare l’importanza di individuare schemi terapeutici che devono essere personalizzati sulle caratteristiche e sulle esigenze della persona.

Conclusioni

La popolazione migrante HIV-positiva presente in Italia è ad oggi particolarmente vulnerabile per la barriera linguistica e soprattutto per il disagio legato alla difficoltà di integrazione. Tutto ciò rende necessario attuare programmi di intervento mirati sia sul piano della prevenzione che della cura, ritagliati sulle problematiche specifiche della popolazione straniera e dei singoli individui.

 

  1. Centro Studi Politica Internazionale (CeSPI). FOCUS Migrazioni internazionali Osservatorio quadrimestrale n. 40 settembre – dicembre 2020. Febbraio 2021. Disponibile al link: https://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/focus/PI0040FocusCeSPI.pdf.
  2. Human Rights Watch. World Report 2019. Disponibile al link: https://www.hrw.org/sites/default/files/world_report_download/hrw_world_report_2019.pdf.
  3. Eurostat. Migration and migrant population statistics. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_and_migrant_population_statistics
  4. Saracino A, Lorenzini P, Lo Caputo S, et al, ICONA Foundation Study Group. Increased risk of virologic failure to the first antiretroviral regimen in HIV-infected migrants compared to natives: data from the ICONA cohort. Clin Microbiol Infect. 2016;22(3):288:e1-8.
  5. Lima V, Fernandes K, Rachlis B et al. Migration adversely affects antiretroviral adherence in a population-based cohort of HIV/AIDS patients. Soc Sci Med. 2009;68(6):1044-9.
  6. Orkin C, Eron JJ, Rockstroh J, et al, AMBER study group. Week 96 results of a phase 3 trial of darunavir/cobicistat/emtricitabine/tenofovir alafenamide in treatment-naive HIV-1 patients. AIDS. 2020;34(5):707-718.
  7. Lathouwers E, Weinsteiger S, Baugh B, et al. Week 96 resistance analyses of the once-daily, single-tablet regimen (STR) darunavir/cobicistat/emtricitabine/tenofovir alafenamide (D/C/F/TAF) in adults living with HIV-1 from the phase 3 randomized AMBER and EMERALD trials. J Med. Virology 2021;93(6):3985-3990.
  8. Paton NI, Musaazi J, Kityo C et al, NADIA Trial Team. Dolutegravir or Darunavir in Combination with Zidovudine or Tenofovir to Treat HIV. N Engl J Med. 2021;385(4):330-341.

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