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Bulevirtide nell’epatite cronica D: i dati dopo le prime 48...

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N.3 2023
Clinica Epatiti
Bulevirtide nell’epatite cronica D: i dati dopo le prime 48 settimane di terapia dello studio di fase 3

Antonino Picciotto
Professore di Gastroenterologia, Università degli Studi Genova

Nonostante restino quesiti aperti, bulevirtide rappresenta un progresso nell’attuale scenario terapeutico per la capacità di ridurre, senza eventi avversi, l’infiammazione epatica nel 50% circa dei pazienti

 

Lo scenario epidemiologico dell’epatite cronica da virus D (HDV) si è modificato negli ultimi 25 anni grazie allo sviluppo globale dei programmi di vaccinazione contro l’infezione da virus B (HBV) ed alla conseguente riduzione del numero dei portatori di HBV, suscettibili di infezione da HDV. I dati disponibili, pur con una significativa eterogeneità geografica, indicano che il 4,5% dei portatori di HBsAg sono anti-HDV positivi, cioè circa 12 milioni di persone al mondo sono portatori di coinfezione HBV-HDV (1). In Italia la prevalenza di HDV sui portatori di HBsAg era nel 2019 del 9,9% (6,4% tra gli autoctoni, 26,4% tra gli immigranti) (2).

L’HDV è causa di patologia epatica rapidamente progressiva alla cirrosi e di un maggiore tasso di sviluppo di epatocarcinoma rispetto alle altre forme di epatite cronica virale, per cui è mandatorio ricercarne la coinfezione se è presente l’HBsAg; livelli persistentemente alti di HDV RNA si associano al peggioramento del quadro clinico del paziente (3).

La terapia dell’epatite cronica D (ECD) rimane una sfida aperta. Negli Stati Uniti non è stato ancora approvato alcun farmaco e l’infezione cronica da HDV è stata definita orfana di terapia; l’interferone peghilato alfa-2a ha dimostrato in numerosi studi di sopprimere la replicazione virale e ridurre l’infiammazione del fegato durante la terapia, raramente però i risultati si mantengono dopo la sua sospensione.

In Europa è stato approvato l’uso di bulevirtide (BLV) nel 2020. Si tratta di un lipopeptide sintetico che inibisce l’entrata di HBV e HDV negli epatociti legandosi e inattivando il polipeptide cotrasportatore del taurocolato di sodio (NTCP), identificato come il recettore per l’entrata negli epatociti di entrambi i virus; in uno studio di fase 2, BLV ha indotto significativa riduzione dei livelli di HDV RNA e ALT (4).

Sono ora disponibili i risultati della terapia col farmaco nelle prime 48 settimane di uno studio di fase 3 programmato nel lungo termine e tuttora in corso (Wedemeyer DH, et al. for the MYR 301 Study Group. A Phase 3, Randomized Trial of Bulevirtide in Chronic Hepatitis. N Engl J Med 2023; 389:22-32).

 

Lo studio in sintesi

I pazienti sono randomizzati in tre gruppi, due che ricevono 2 o 10 mg di BLV sottocute al giorno ed uno di controllo. I primi due proseguiranno la terapia per 148 settimane. Il gruppo di controllo ha iniziato la terapia alla dose di 10 mg dopo 48 settimane di osservazione, proseguendola per le ulteriori 96 settimane. È previsto in tutti i gruppi un follow-up di ulteriori 96 settimane dopo la terapia.

L’obiettivo primario è stato definito come la riduzione dei livelli di HDV RNA sierico di 2 o più log10 IU/mL rispetto al titolo originale, associata alla normalizzazione delle ALT; la negatività di HDV RNA sierico alla settimana 48 è considerata obiettivo secondario.

Tab1I risultati sono riportati nella tabella 1. Gli effetti collaterali riportati (cefalea, prurito, astenia, eosinofilia, dolore nella sede della iniezione, artralgie), più comuni nei pazienti trattati, non hanno mai avuto caratteri di severità. L’incremento dose-dipendente dei livelli sierici degli acidi biliari non si è accompagnato a segni di danno colestatico.

 

Commento

Lo studio dimostra che dopo 48 settimane di terapia, BLV riduce significativamente i livelli di HDV RNA e normalizza le ALT sia alla dose di 2 che di 10 mg, rispondendo quindi all’endpoint primario; tuttavia non si è evidenziata nei gruppi trattati né la perdita né la riduzione dei livelli di HBsAg. Il trial è in corso per cui non si hanno dati sull’efficacia, profilo di sicurezza ed effetti collaterali proiettati sul lungo termine.

Vi sono alcuni limiti dello studio, peraltro sottolineati dagli Autori, di cui i più importanti sono:

  • la mancanza di una diagnosi istologica
  • circa la metà dei pazienti è classificata come cirrosi Child-Pugh A e solo il 17% con piastrine inferiori o uguali a 100.000/mm3
  • la maggior parte dei pazienti sono di razza bianca
  • non tutti i genotipi di HBV e HDV sono rappresentati.

In assenza di altre terapie, La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato che nuovi antivirali oggetto di trial clinici per ECD possono rispondere al requisito di ridurre il livello di HDV RNA di almeno 2 log assieme alla normalizzazione delle transaminasi (5). Tale requisito, che dovrebbe essere seguito da un beneficio clinico, è stato estrapolato dagli studi sulla terapia con interferone; è tuttavia applicabile ad agenti antivirali che agiscono con meccanismo di azione differente dall’IFN (6-8)?

Poiché il beneficio clinico della terapia deve prolungare la sopravvivenza del paziente con ECD prevenendo la progressione verso la cirrosi, lo scompenso del fegato e l’epatocarcinoma, è sufficiente ed indicativo il risultato ottenuto a 48 settimane per documentare che BLV ha prodotto o produrrà un beneficio clinico?

In altre infezioni croniche virali (HBV, HCV) tale obiettivo si raggiunge con la soppressione totale o sotto un valore soglia della viremia; nello studio di Wedemeyer et al., solo il 12% dei pazienti trattati con 2 mg ed il 20% di quelli trattati con 10 mg di BLV hanno eliminato l’HDV RNA dopo 48 settimane. Considerato che circa una metà dei pazienti ha ECD, la biopsia epatica avrebbe potuto validare pesantemente il presupposto su cui si è basato lo studio.

L’endpoint primario raggiunto al momento non permette di concludere sull’efficacia e sicurezza del farmaco nel lungo termine e soprattutto sul rischio di recidive virali (breakthrough), che sono state la regola negli studi con interferone. Nondimeno BLV rappresenta un progresso nell’esiguo scenario terapeutico dell’ECD ed il suo uso va considerato per ridurre senza effetti avversi le ALT, quindi l’infiammazione epatica, nel 50% circa dei pazienti trattati; in attesa, ovviamente dell’evoluzione dei risultati ulteriori negli studi a lungo termine in corso.

 

  1. Stockdale AJ, Kreuels B, Henrion MYR, et al. The global prevalence of hepatitis D virus infection: systematic review and meta-analysis. J Hepatol. 2020;73:523-53.
  2. Stroffolini T, Ciancio A, Furlan C, et al. Migratory flow and hepatitis delta infection in Italy: a new challenge at the beginning of the third millennium. J Viral Hepat. 2020;27:941-7.
  3. Asselah T, Rizzetto M. Hepatitis D virus infection. N Engl J Med. 2023;389:58-70.
  4. Wedemeyer H, Schoneweis K, Bogomolov P, et al. Safety and efficacy of bulevirtide in combination with tenofovir disoproxil fumarate in patients with hepatitis B virus and hepatitis D virus coinfection (MYR 202): a multicentre, randomised, parallel-group, open-label, phase 2 trial. Lancet Infect Dis. 2023;23:117-29.
  5. Yurdaydin C, Abbas Z, Buti M, et al. Treating chronic hepatitis delta: the need for surrogate markers of treatment efficacy. J Hepatol. 2019;70:1008-15.
  6. Lok AS, Negro F, Asselah T, et al. Endpoints and new options for treatment of chronic hepatitis D. Hepatology. 2021;74:3479-3485.
  7. Da BL. Clinical trials in HDV: measuring success. Hepatology. 2023;77:2147-57.
  8. Ghany MG. A Glimmer of Hope for an Orphan Disease. N Engl J Med. 2023;389:81-82.

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