Clostridium innocuum è stato descritto per la prima volta nel 1961 negli Stati Uniti in 8 pazienti ospedalizzati con manifestazioni extraintestinali (1). In seguito è stato segnalato anche come causa di diarrea infettiva, con sindromi analoghe a quelle descritte per Clostridioides difficile, e, ancor più recentemente ne è stato ipotizzato un ruolo anche nelle riacutizzazioni del morbo di Crohn (2,3). Eppure, in principio il nome di specie “innocuum” fu scelto in quanto nei modelli animali sembrava essere un microrganismo poco virulento (1). Come tutte le specie del genere Clostridium è un bacillo gram positivo, anaerobio e sporigeno. Non è dotato di geni codificanti per le tossine A e B di C. difficile e, sebbene inizialmente venne descritto come privo di motilità, analisi genomiche recenti suggeriscono il contrario perché possiede i geni per i pili di tipo IV, responsabili della mobilità in una specie batterica curiosamente distante ai Clostridium come Pseudomonas aeruginosa. Quest'ultima peculiarità avrebbe, come vedremo in seguito, un ruolo importante nella espressione clinica del morbo di Crohn (4).
C. innocuum fa parte del gruppo denominato RIC (C. ramosum, C. innocuum, C. clostridioforme). L’identificazione microbiologica di questo gruppo non è semplice e spesso questi organismi non vengono riconosciuti o vengono identificati in maniera erronea. C. innocuum cresce in CCFA (cicloserina cefoxitin fruttosio agar), terreno selettivo per l'isolamento primario di C. difficile da campioni di feci e di altra natura. Dal momento che però cresce con colonie morfologicamente simili a quelle di C. difficile è essenziale l’aggiunta di vancomicina, cui C. innocuum è resistente, al terreno. L’identificazione definitiva del germe è oggi migliorata rispetto alla scarsa efficienza dei test biochimici disponibili in commercio, grazie a nuove metodiche quali l’analisi dei prodotti metabolici e degli acidi grassi con cromatografia gas-liquido (GLC), il sequenziamento genico del 16s RNA e la spettrometria di massa secondo MALDI-TOF (5). Per quest’ultima procedura, che rappresenta la più agevole per i laboratori di Microbiologia Clinica, l’ente regolatorio FDA ne ha recentemente approvato l’uso per identificare correttamente C. innocuum.
Le peculiarità di sensibilità agli antibiotici di C. innocuum e dei Clostridium in generale sono state studiate dal 1999 al 2013 in maniera approfondita dal gruppo di Goldstein (6-9). Una sintesi di questi studi è rappresentata nella Tabella 1, dove sono confrontate le caratteristiche di antibiotico-sensibilità di C. innocuum con quelle di C. difficile: infatti, come mostrato di seguito, le due specie batteriche hanno delle analogie in termini di infezione intestinale. Il dato più interessante è la uniforme resistenza a fidaxomicina e vancomicina che rappresentano i farmaci di prima scelta nel trattamento della colite da C. difficile (10). Quanto questo elemento possa influenzare l’efficacia di questi farmaci nella colite da C. innocuum, non è al momento dato di sapere, ma sarà uno degli elementi che riguardano questo microrganismo da chiarire in futuro.
Il ruolo di C. innocuum come causa di infezioni extraintestinali
In generale in letteratura le infezioni extraintestinali da C. innocuum (EICI) sono presenti in forma di singoli “case report” o di casi di infezione, anche rara, all’interno di casistiche che comprendono varie specie di Clostridium. Attualmente, sono stati descritti casi di endocardite, batteremia, osteomielite, ascessi addominali e peritonite (5).
L’importante indagine retrospettiva, condotta da Chia et al. del Chang Gung Memorial Hospital di Taiwan negli anni 2007-2011, si è avvalsa di una rigorosa ricerca microbiologica delle etiologie con adozione, ai fini della identificazione delle specie di Clostridium, non solo dei consueti pannelli con test metabolici, ma anche delle procedure MALDI-TOF e, soprattutto, di sequenziamento dell’RNA 16S (11). In definitiva, su 3191 campioni raccolti da siti normalmente sterili, le specie di Clostridium sono state isolate in 376 campioni biologici sede di infezione, di cui 226 erano liquido ascitico, 144 sangue e 6 liquido pleurico. Se C. perfrigens è stato l’agente più isolato in poco oltre il 50% dei casi, C. innocuum si è insediato in seconda posizione (6.4%) precedendo, quale terza etiologia, C. difficile (4.8%). Nei 24 casi di EICI in cui è risultato ad unica etiologia, C. innocuum, è stato isolato in 19 evenienze dal liquido ascitico e nelle restanti 5 dal sangue: coesistevano, quali manifestazioni cliniche: diarrea (8,3%), impegno di tessuti molli (12,5%), appendicite (25%), shock (16,7%) e perforazioni GI (16,7%). In generale tutti i pazienti avevano una o più comorbidità; tuttavia, lo spessore patogeno di C. innocuum si è potuto desumere dalla presenza di shock settico e da mortalità a 30 giorni registrate entrambe nel 17% dei casi. Tutti i decessi sono avvenuti in seguito a infezione intraddominale, quest’ultima gravata di un tasso di mortalità del 21,1%. Nel tentativo di chiarire meglio questo punto, gli stessi autori condussero uno studio in vitro sottoponendo al test del lisato di amebociti (cosiddetto “Limulus test”), impiegato per dimostrare l’effetto delle endotossine prodotte dai bacilli gram negativi come P. aeruginosa. Nei loro esperimenti il segnale di endotossina da C. innocuum fu molto inferiore a quello dimostrato da P. aeruginosa; tuttavia fu significativamente più elevato rispetto ai segnali di S. aureus, C. difficile ed il campione controllo privo di endotossina. Infine, studi sul genoma (“whole genome sequencing”) per identificare eventuali geni codificanti tossina dettero risultati negativi (11).
C. innocuum come agente di infezione intestinale
Risale a circa venti anni fa la prima descrizione sommaria di tre pazienti con recidiva e persistenza, nonostante la terapia con vancomicina, di colite inizialmente inquadrata come C. difficile: alla fine i casi vennero attribuiti alla possibile selezione, con evidente ruolo patogeno, di C. innocuum (12). Tuttavia bisognerà attendere tempi recenti per avere una idea più compiuta sul ruolo infettivo in tal senso di questo microrganismo, grazie ad un nuovo contributo del gruppo di ricercatori di Taiwan (2) che condussero uno studio retrospettivo dal 2002 al 2007 dotato della peculiarità di aver effettuato per prassi un esame colturale completo in 2471 campioni fecali di pazienti con sospetta colite da C. difficile, oltre che la consueta ricerca standard delle tossine A e B. Questo singolare approccio diagnostico microbiologico ha permesso di fornire altresì una stima della possibile incidenza da C. innocuum come causa della “diarrea da antibiotici” che è risultata pari al 5,5%.
Una sintesi delle manifestazioni cliniche osservate in 103 casi in cui è stato possibile raccogliere in maniera completa è illustrata nella Figura 1. Nella maggior parte dei casi si è manifestata una diarrea acquosa o mucosa; tuttavia, in un terzo dei casi si è osservata una diarrea con emissione di feci emorragiche fino a manifestazioni di diarrea pseudomembranosa. Più del 90% dei pazienti esaminati ha avuto una degenza ospedaliera, e tra questi il dato della precedente esposizione ad antibiotici è stato riportato nell’88% dei casi: in particolare, in quasi l’80% dei casi era stato somministrato più di un antibiotico. Una guarigione clinica è stata raggiunta in 88 dei 103 pazienti (85.4%), ma la mortalità intraospedaliera si è attestata al 13,6%: limitatamente ai casi più gravi quest’ultima ha raggiunto il 50%.
Non abbiamo al momento dati certi sulla inefficacia della vancomicina orale nei casi di colite da C. innocuum. Né vi è evidenza che tale agente causi recidive o epidemie di reparto come C. difficile.
L’insieme dei dati a disposizione spinge tuttavia a studiare ancora questo microrganismo quale causa di colite da antibiotici e ricercarlo nei casi sospetti in cui risulti negativa la ricerca di C. difficile.
C. innocuum e malattia infiammatoria intestinale
Uno degli aspetti più interessanti di C. innocuum sembra essere rappresentato da un suo possibile ruolo nella espressione clinica della malattia infiammatoria dell’intestino e, più in particolare, nel morbo di Crohn. Tale ipotesi prende le mosse da un recente studio condotto in soggetti affetti da questa patologia e pubblicato sulla prestigiosa rivista Cell (4). La ricerca era rivolta a studiare il fenomeno del “creeping fat”, una manifestazione extraintestinale della malattia che comporta l'espansione del grasso mesenterico, possibilmente supportata da traslocazione di germi della flora intestinale, intorno a tratti di intestino che vanno incontro ad infiammazione prima e, successivamente, a fibrosi stenosante. In sintesi la scoperta è stata che proprio C. innocuum migrerebbe nel grasso mesenteriale promuovendone l'espansione fino alla sottomucosa. Tale processo sarebbe finalizzato a impedire la traslocazione di altri componenti la flora microbica intestinale. Proprio sulla scorta di queste osservazioni, sempre il sopracitato gruppo di ricercatori di Taiwan, ha successivamente condotto una indagine retrospettiva su 90 pazienti ricoverati tra il 2019 ed il 2021 per complicanze di morbo di Crohn o di rettocolite ulcerosa e sui quali sono stati ricercati nelle feci sia C. innocuum che C. difficile (3). Si sono così ottenuti 4 gruppi di studio così rappresentati: 22 pazienti con C. innocuum, 16 con C. difficile, 13 con entrambi e 39 controlli. L’isolamento di C. innocuum è risultato associato al carattere emorragico della diarrea, ad una minor incidenza di ascessi intraddominali e ad un ridotto tasso di remissione della colite ulcerosa. Sulla base di questi dati gli autori suggeriscono una rigorosa ricerca di C. innocuum al fine di pianificare una terapia antibiotica più efficiente delle manifestazioni colitiche.
Conclusioni
Il ruolo di C. innocuum in patologia resta ancora non del tutto conosciuto e richiede un approfondimento di studi: in base ai dati emergenti tale microrganismo andrebbe possibilmente ricercato nelle forme di diarrea associata agli antibiotici non responsiva ai trattamenti con vancomicina e fidaxomicina, con forse una maggiore attenzione nelle forme che insorgono in pazienti con malattia infiammatoria intestinale.
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