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Obiettivi UNAIDS 95-95-95: riflessioni sul quarto 95 | Nel...

Nel documento UNAIDS sui target 95-95-95 per il 2025 diversi...

N.1 2022
Editoriale
Obiettivi UNAIDS 95-95-95: riflessioni sul quarto 95

Giulio Maria Corbelli
Plus, Bologna

Nel documento UNAIDS sui target 95-95-95 per il 2025 diversi obiettivi affiancano quelli su diagnosi e terapia, come l’implementazione di servizi integrati che pongano al centro le persone con HIV, siano disegnati per rispondere ai loro bisogni e siano guidati dalle persone stesse a cui si rivolgono

 

Non c’è un “quarto 95” tra gli obiettivi recentemente lanciati da UNAIDS per raggiungere l’eliminazione dell’AIDS nel 2030 e conosciuti come “95-95-95”. I nuovi obiettivi (Figura 1) aggiornano quelli lanciati alcuni anni fa che si sintetizzavano in “90-90-90”: diagnosticare l’infezione almeno al 90% delle persone che vivono con HIV, fare accedere alla terapia almeno il 90% dei diagnosticati e raggiungere lo status di “undetectable” per almeno il 90% di quelli in terapia.

A suo tempo, accanto a questi obiettivi era stato proposto di affiancare un “quarto 90” che in sintesi consisteva nel fare in modo che almeno il 90% delle persone con HIV avesse una buona qualità della vita correlata alla salute.

L’obiettivo del “quarto 90” ha suscitato un utile e interessante dibattito. La necessità di includere una valutazione di benessere che andasse oltre la soppressione virologica era ed è evidente. Se, infatti, la medicina permette di evitare problemi di salute legati all’infezione da HIV alla stragrande maggioranza delle persone che vivono con il virus, i dati disponibili relativi al benessere complessivo delle persone con HIV non consentono di essere altrettanto ottimisti: una metanalisi del 2019 stimava che mediamente il 31% delle persone che vivono con HIV soffre di depressione, anche se la percentuale si abbassa al 22% in Europa. Le cifre possono cambiare, ma qualunque indagine sulla salute mentale delle persone con HIV rivela significativi bisogni non soddisfatti. Anche in Italia, i servizi di supporto per le persone con HIV sono poco diffusi, il modello di “integrated care” è ben lontano dall’essere disponibile presso ciascun centro infettivologico ed è diventato pressoché inaccessibile anche laddove esisteva in conseguenza della pandemia. In poche parole, per la loro salute complessiva le persone che vivono con HIV spesso possono solo provvedere in maniera autonoma.

Uno dei problemi dell’obiettivo del “quarto 90” riguarda la sua “misurabilità”. Certo, esistono le Patient Reported Outcomes Measures (PROMS) che, anche sulla spinta di questo dibattito, stanno assumendo sempre maggiore rilevanza. Ma anche su queste misurazioni le perplessità non mancano: il processo di sviluppo e validazione di questi strumenti richiede spesso alcuni anni, così che il risultato finale rischia di essere già obsoleto, in uno scenario in cui le condizioni cambiano rapidamente.

C’è inoltre la questione di come indagare efficacemente un concetto complesso come la “qualità della vita correlata alla salute” in popolazioni così diverse. Anche volendo generalizzare, probabilmente ciò che è più importante per poter dichiarare una soddisfacente qualità della vita per un maschio gay è diverso da ciò che sta a cuore a una persona migrante o a una giovane donna o sex worker senza fissa dimora. Ha quindi senso utilizzare gli stessi strumenti per tutti?

In qualche modo, l’ultimo documento di UNAIDS contenente i target “95-95-95” per il 2025 gestisce queste problematicità in maniera indiretta. L’organismo delle Nazioni Unite ha identificato altri obiettivi da affiancare a quelli relativi a diagnosi e terapia. Ad esempio, si raccomanda che almeno il 90% delle persone che vivono con HIV e di quelle che sono a maggior rischio di contrarlo siano in contatto con dei servizi integrati che mettano al centro le persone e che siano disegnati per rispondere alle caratteristiche specifiche del contesto in cui quelle persone vivono (people-centered and context-specific integrated services). Si tratta, spiega il documento UNAIDS, di prevedere dei servizi che non siano focalizzati su una singola patologia, ma che siano guidati dalle persone stesse a cui si rivolgono. In altre parole, non un centro di infettivologia incaricato di occuparsi di tutto, ma piuttosto un centro disegnato apposta per i maschi gay, un altro per le persone trans, un punto di riferimento per le giovani donne, servizi specifici per le persone che provengono da altri paesi, o anche servizi specifici per chi fa uso di sostanze psicotrope.

Come si può osservare anche dalla lettura completa del documento UNAIDS (https://aidstargets2025.unaids.org/), l’approccio scelto dalla agenzia ha quindi il vantaggio di riconoscere la complessità della questione riguardante il monitoraggio degli outcome relativi alla qualità della vita delle persone che vivono con HIV e che sono a rischio di contrarlo. È un ambito in cui è impensabile adottare un approccio unico per tutte e tutti: riconoscere le peculiarità di ciascun individuo è un punto centrale per riuscire a identificare i bisogni e la loro soddisfazione.

In questo approccio, è evidente che una soluzione basata solo sui servizi interni al sistema sanitario non è sufficiente. Per rispondere ai bisogni complessivi di salute delle persone riconoscendone l’individualità e peculiarità è necessario ricorrere al supporto dei “pari”. È per questo che UNAIDS raccomanda anche di impegnarsi a offrire servizi gestiti dalla Community, fornendo le risorse e il supporto di cui necessitano per concretizzare il loro ruolo di partner centrali nella risposta all’HIV. Una raccomandazione che, soprattutto in un setting come quello italiano, è ben lontana dall’essere realizzata.

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