I sistemi sanitari basati su una organizzazione centrata sugli ospedali, come quello italiano, non hanno retto all’impatto della pandemia COVID-19 a differenza dei sistemi sanitari che hanno potuto contare su una assistenza territoriale capillare e su una interazione ospedale-territorio già strutturata e basata su un buon livello di comunicazione.
In Italia vi è un grande dibattito sulle conseguenze della pandemia in termini di diagnosi non fatte per altre malattie, screening non eseguiti, trattamenti non avviati per molte patologie (neoplastiche, malattie degenerative acute e croniche, malattie infettive, ecc.) con conseguenze gravi immediate e prevedibilmente in tempi medio lunghi.
Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità in una indagine condotta nell’agosto del 2020 in cento strutture ospedaliere in diversi paesi ha evidenziato una riduzione del 46% per le attività di diagnosi e cura per la malaria, del 42% per le attività di screening e terapia per la tubercolosi e del 32% per le attività di screening, prevenzione e terapia dell’infezione da HIV. La riduzione di tutte queste prestazioni porterà nell’Africa sub-sahariana, solo per l’infezione da HIV, ad un incremento del 19% di casi di AIDS e ad un aumento della mortalità calcolato in 296.000 decessi in più per AIDS.
Emerge quindi una chiara necessità di rimodulare l’assistenza sanitaria rinforzando il territorio in termini di:
- riduzione degli accessi in ospedale,
- implementazione di assistenza al domicilio del paziente,
- disponibilità di servizi diagnostici decentrati sul territorio rispetto all’ospedale,
- possibilità che risorse umane con specifiche competenze siano presenti nel territorio in stretta collaborazione con i centri specialistici dell’ospedale.
L’invecchiamento e il grande progresso della medicina, con pazienti sempre più complessi e quindi fragili, ha portato sempre di più a legare questi pazienti con patologie croniche ai centri di cura specialistici all’interno dell’ospedale impegnando risorse che dovrebbero invece essere prioritariamente dedicate ai pazienti acuti.
Diventa quindi indispensabile implementare l’effettiva acquisizione culturale del modello di chronic care attuando una progettualità di tipo strutturale e avviando il reclutamento di operatori sanitari formati e motivati per realizzarla.
Si devono sviluppare interventi finalizzati all’accesso alle cure soprattutto per i pazienti cronici che prevedano la semplificazione dei percorsi attraverso il potenziamento delle attività extra ospedaliere (Figura 1).
La telemedicina basata su tecnologie digitali (TeleMedicina Digitale) può rappresentare una nuova modalità di erogazione della assistenza e quindi una soluzione per tali criticità facilitando il passaggio tra una assistenza “ospedale-centrica” ad una più improntata nel territorio. Per far questo però la telemedicina deve essere in grado di:
- assicurare un’appropriata erogazione dei servizi,
- garantire una efficace continuità dell’assistenza,
- permettere la presa in carico dei pazienti,
- ornire una più incisiva attività di promozione e di educazione alla salute,
- erogare tutte le attività specialistiche,
- ridurre le liste d’attesa,
- attivare i percorsi assistenziali,
- permettere una efficace integrazione socio-sanitaria,
- ridurre gli accessi impropri al pronto soccorso,
- valorizzare tutte le componenti sanitarie del sistema territoriale.
La pandemia da COVID-19 ci ha colto impreparati e ha dimostrato che la nostra Sanità pubblica, pur garantendo una buona assistenza a tutti i cittadini, deve essere modificata nelle sue forme di erogazione. Bisogna creare nuovi modelli di assistenza sul territorio basati sul concetto di medicina di prossimità e di comunità, costruendo reti territoriali in grado di fornire cure appropriate e accessibili ovunque, gestite da personale sanitario e da caregiver adeguatamente formati. La sanità del dopo pandemia dovrà essere caratterizzata dal contrasto alle disuguaglianze nell’accesso alle cure, allo screening e alle terapie delineando un nuovo modello di presa in carico e dei nuovi PDTA finalizzati alla gestione dei pazienti con le malattie croniche.
Un’altra importante criticità emersa nel corso della pandemia è stata quella di evidenziare che, nel nostro Paese, vi è un’ampia quota della popolazione che ha scarsa considerazione nelle istituzioni ed in particolare nelle autorità competenti in termini di salute pubblica. Infatti, la vaccinazione anti-COVID ha aperto un importante dibattito relativamente al diritto alla salute, l’armonizzazione tra diritto individuale e diritto collettivo, gli obblighi e i diritti dei lavoratori in ambito sanitario di fronte all’epidemia, la necessità di nuovi strumenti di conoscenza sul vaccino.
Questo confronto di opinioni è nato all’interno di un ordinamento della nostra costituzione che al comma 1 dell’art.32, sottolinea la necessaria armonizzazione tra diritto individuale e diritto collettivo, sancendo che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…». Si è venuto quindi a generare un duro contrasto tra chi difende il diritto alla salute, quale diritto fondamentale ed inviolabile del singolo individuo, e chi vuole preservare lo stato di salute della intera collettività.
In questo scenario, con un decreto legge, il 5 gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo vaccinale per la prima volta diretto a cittadini adulti, ed in particolare a quelli con più di 50 anni, cercando in questo modo di arginare l’estendersi della pandemia.
Certamente, le polemiche relative alla vaccinazione per SARS-CoV-2 si sono generate fin dall’inizio per le perplessità derivate dalla realizzazione in pochi mesi di un vaccino che utilizzava una nuova piattaforma tecnologica, ma anche per il fatto che le agenzie regolatorie del farmaco hanno inizialmente dato messaggi spesso contraddittori come per esempio sull’età per la quale erano indicati i diversi tipi di vaccino. Inoltre, c’è stata una campagna mediatica spesso ossessiva sul rischio dei vaccini e nel riportare i casi di reazioni avverse gravi. Tutto questo nonostante il fatto che nella realtà ci sia stata la dimostrazione dell’efficacia dei vaccini sia in termini di progressione di malattia sia nella riduzione dei tassi di ospedalizzazione che di letalità.
In conclusione, la pandemia ha fatto emergere la debolezza di una struttura sanitaria nazionale troppo “ospedalo-centrica”, e l'assenza di un piano pandemico che fosse in grado di gestire l’emergenza, in uno scenario nel quale le informazioni via web sembrano ormai essere più attendibili di quelle date dai canali della scienza.
Non di meno si deve sottolineare come la necessità di affrontare una patologia infettiva con compromissione multiorgano quale quella della COVID-19 ha reso indispensabile un approccio multidisciplinare e multiprofessionale che ha determinato una virtuosa e irrinunciabile condivisione delle conoscenze. È auspicabile che questo spirito collaborativo, che ha coinvolto ricercatori di tutto il mondo con risultati in molti casi eccezionali, possa essere conservato nell’interesse della medicina e di tutta la scienza.